Myanmar, l’oleodotto d’oro e la tragedia dei Rohingya

Dopo il golpe militare

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Una ragnatela di tubi attraversa per chilometri l’ex Birmania fino al confine con la Cina, partner di maggioranza dello Shwe gas che parte dallo Stato di Rachine da cui sono fuggiti milioni di persone di etnia Rohingya.

Nel Myanmar blindato nei suoi confini dopo il colpo di Stato dell’1 febbraio 2021, l’oleodotto Shwe Gas continua a creare tensioni.

Secondo Shan Human Rights Foundation sono state piazzate mine nella zona di pompaggio intorno all’autostrada che da Mandalay porta a Lashio, nello Stato birmano di Shan.

Tutta la bretella Nord del gasdotto è cosparsa di ordigni bellici «per motivi di sicurezza» come dichiarato dai militari dell’esercito nazionale.

Una sicurezza che non riguarda certo la gente dei villaggi sparsi nella zona strategica vicina al confine con la Cina, Paese di destinazione dei tubi che portano gas e petrolio dallo Stato di Rakhine sul Golfo del Bengala fino al potente vicino. I progetti Shwe (che in birmano vuol dire oro) hanno avuto inizio nel 2011 e sono una colossale realizzazione cinese.

Gli oleodotti trasportano infatti carburanti per oltre 2.800 chilometri dallo Stato di Rakhine, dove vengono sfruttati i giacimenti di gas naturale al largo della costa.

Accanto a questa pipeline altre due linee per portare il petrolio dall’Africa e dal Medio Oriente (evitando la rotta dello Stretto di Malacca), fino al Sud ovest della Cina.

Si tratta di una complessa joint venture che ha dato vita al consorzio Shwe Gas composto da quattro società indiane e sud coreane che dal 2013 in poi hanno costruito piattaforme di produzione offshore, un gasdotto sottomarino e il primo terminal a terra nella cittadina costiera di Kyan Phyu per il passaggio su terra di milioni di metri cubi di gas naturale l’anno.

La Cina è partner autorevole del progetto grazie alla China National Petroleum Corporation (CNPC), mentre la distribuzione del gas che arriva fino alla provincia di Nanning (capitale della provincia di Guangxi) fa capo alla Petro China.

Grazie a quest’affare ciclopico il regime militare birmano può contare su circa 30 miliardi di dollari in 30 anni. A pieno regime l’oleodotto può trasportare fino a 12 miliardi di metri cubi di gas, ovvero il 6% del fabbisogno totale del gigante cinese.

Un affare gigantesco, pensando alle condizioni di arretratezza e isolamento internazionale dell’ex Birmania del dopo golpe.

Parallelamente allo sviluppo del progetto della Shwe Gas, sono iniziate nella zona di partenza dell’oleodotto le tensioni sulla popolazione locale, in particolare sulla minoranza etnica dei Rohingya, pescatori di religione musulmana insediati nello Stato di Rakhine.

Dalla fine del 2009 la CNCP ha iniziato la costruzione di un altro porto e di un terminal per il greggio, testa di ponte di un nuovo oleodotto lungo 770 chilometri, in grado di trasportare fino a 22 milioni di tonnellate di petrolio all’anno nella provincia dello Yunnan nella Cina meridionale.

In questo caso la torta dei guadagni è stata divisa praticamente a metà tra Cina e Myanmar, oltre al riconoscimento di una cospicua tassa di passaggio fissa di 150 milioni di dollari l’anno.

Ormai la sorte dei Rakhine era segnata: l’etnia (proveniente dal Bangladesh), la più isolata tra le 135 che compongono la popolazione del Myanmar, senza cittadinanza e appartenente ad una religione diversa dal buddismo predominante nel Paese, era destinata a togliere il disturbo da quell’area di grandi interessi e alleanze geopolitiche.

Nel 2012 si registrano nel Rakhine i più pesanti massacri compiuti dall’esercito nazionale contro civili inermi: in 400mila sono spinti a rifugiarsi in campi profughi in Bangladesh.

Nel 2015 le vie del gas e i serbatoi di stoccaggio hanno già preso il posto di molti villaggi da cui sono fuggiti migliaia di pescatori, e dei Rohingya (un milione prima delle persecuzioni) si parla già come della «minoranza etnica più perseguitata al mondo» come li definisce Antonio Guterres, segretario dell’Onu.

All’inizio delle persecuzioni si diffonde l’interpretazione di un conflitto interreligioso, in cui i buddisti perseguitavano i musulmani, ma il tempo e la portata della tragedia dei Rohingya hanno dimostrato la falsità di queste speculazioni montate ad arte.

Nel novembre 2017, la visita di papa Francesco, accolto dalla leader Aun San Suu Kyi, mette in luce la drammatica situazione dei Rohingya, costretti alla fuga per chilometri a piedi, perseguitati e spinti alla ribellione con infiltrazioni terroristiche di matrice fondamentalista.

Oggi la situazione appare “sotto controllo”.

Mentre in Myanmar la stretta dei militari sulla popolazione civile, sui religiosi e sugli esponenti della società civile diventa sempre più feroce e sanguinaria, gli oleodotti continuano a lavorare a pieno ritmo, pompando gas e garantendo una rendita sicura allo Stato militare birmano a protezione cinese.

Sui 750mila Rohingya dispersi nella no man land tra Myanmar e Bangladesh è scesa invece l’indifferenza mediatica.