Laici fidei donum, chi vi vuole in missione?

Un'analisi dell'invio ad gentes partendo dalla prospettiva africana dell'Etiopia

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Potrebbe sembrare una domanda provocatoria, come se la presenza dei laici fosse un’appendice
opzionale dell’attività missionaria ad gentes: sì, chi vi vuole in missione?

Stando alla convenzione che regolamenta l’invio dei “fedeli laici”, ci deve essere una esplicita richiesta da parte del vescovo della diocesi che accoglie il laico.

Alla quale fa seguito la risposta da parte del vescovo che riceve la richiesta ed accetta di inviare il laico a prestare servizio in missione (è interessante notare che formalmente al laico è consentito/richiesto di svolgere un servizio missionario senza per questo acquisire il “titolo” di missionario o fidei donum; un facente funzioni, insomma, militare di leva, non di carriera).

Ricordo sempre con molto affetto il primo vescovo del vicariato apostolico di Meki, in Etiopia, monsignor Yohannes Woldegiorgis (1921-2002), con cui, per conto della associazione di volontariato internazionale – tra le fondatrici della Focsiv – avevo affrontato una delicata situazione.

Si trattava proprio di riconoscere l’identità dei volontari laici incaricati di svolgere un servizio di promozione umana a nome della chiesa locale, formalizzandone le attività con un atto ufficiale civile, attraverso la sottoscrizione di un accordo con il ministero competente.

Il fatto stesso che quell’accordo fosse stato firmato dall’Associazione di volontariato in persona del suo fondatore e presidente, nonché prete (già militante “disarmato” delle brigate partigiane attive nel cuneese durante l’occupazione nazista e miracolosamente scampato alla fucilazione), con un ministro del governo “comunista-ateo” presieduto dal “negus rosso” Menghistu Haile Mariam, faceva gridare allo scandalo l’abuna Yohannes.

E non potevo certo non comprendere il suo disappunto, viste le tante vessazioni subite
dalla sua Chiesa per mano di facinorosi sostenitori del regime del derg, la giunta militare
governativa.
Ma quella firma rappresentava l’unica possibilità di garantire la presenza dei volontari laici per un servizio tanto richiesto e apprezzato dalla popolazione come dalla chiesa locale, per la promozione di uno sviluppo.

Allora chiamato ‘multisettoriale integrato’, per evidenziarne le caratteristiche di inclusività delle diverse componenti umane e tecniche.

A quel punto la scelta era tutta nelle nostre mani: cioè, rinunciare all’accordo con la controparte
governativa e quindi fare le valige e tornarcene in Italia, oppure firmare e proseguire così il nostro
servizio allo sviluppo promosso anche attraverso un formale accordo con la Chiesa locale.

Da questo intrigante confronto emergeva la necessità di un riconoscimento del ruolo del vescovo
che andasse, giustamente, oltre l’aspetto formale, ma nel contempo si evidenziava la
responsabilità dei laici in missione di operare nel rispetto delle leggi civili del paese ospitante.

«Tale obbligo è ancora più urgente in quelle situazioni in cui gli uomini non possono ascoltare il Vangelo e conoscere Cristo se non per mezzo loro.» (can. 225-§1)

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti in Etiopia, sono cambiati i riferimenti ideologici della
politica con impronta federalista, e abuna Yohannes si è sempre mostrato attento ai bisogni della popolazione più povera che cercava di aiutare con spirito di genuina carità cristiana.

Devo ammettere di aver fatto tesoro di quella particolare occasione di sincero confronto
sull’identità del laico a servizio della missione.

E’ un servizio ad una Chiesa locale che accoglie il laico in quanto lo ha richiesto per le sue caratteristiche umane e professionali, e non perché gli è stato in qualche modo imposto da un’altra Chiesa, sorella maggiore, al cui “pacchetto di aiuti”, che comprende personale religioso e laico e significativi contributi economici, è sconveniente rinunciare.

Vale sempre la pena, quindi, tenere aperto lo spazio di confronto che prelude ad una effettiva
sinodalità anche nelle relazioni in ambito missionario.

E’ compito dell’attività missionaria sostenere concretamente il radicamento delle giovani chiese nella società locale, allentandone la dipendenza dalle Chiese più ricche di personale anche laico, da inviare in missione, ma non a proprio piacimento.

(Articolo comparso sul NotiCum di aprile)