Il ‘lato oscuro’ delle rose di San Valentino, monopolio olandese in Kenya

Attorno al lago Naivasha operano oltre 100 multinazionali che pagano meno di 3 dollari al giorno i coltivatori di fiori

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Anticipiamo qui la prima parte di una inchiesta che uscirà sul prossimo numero di Popoli e Missione e che spiega meglio da dove arrivino e da chi sono coltivate le rose di San Valentino e i tanti fiori recisi venduti sul mercato europeo.

Da solo il Kenya rifornisce un terzo di tutte le rose rivendute nei Paesi dell’Unione europea: dopo il tè sono i fiori il principale bene esportato dal Paese di William Ruto, per una cifra che vale l’1% del Pil.

Più complesso è capire a beneficio di chi vadano questi proventi: di certo non se ne avvantaggiano i coltivatori, o gli operai e le tante donne che ogni giorno trascorrono anche dieci ore nelle serre o nei campi tra profumi e colori, ma tendenzialmente in miseria.

Al primato keniano, in Africa, si aggiunge l’export di fiori da Tanzania, Etiopia e Sudafrica che vendono in Europa tra il 24% e il 62% di tutti i fiori recisi.

Il vero paradiso delle serre si trova proprio nei pressi del lago Naivasha a meno di un’ora da Nairobi, tra rocce vulcaniche e depositi sedimentari.

In questa regione verdissima le aziende di fiori sono un centinaio e tutte attingono l’acqua dall’immenso lago (la cui superficie misura 139 chilometri quadrati) della Rift Valley, che difatti nella stagione secca si prosciuga e in quella delle piogge esonda, per via dei cambiamenti climatici.

Il nome del Naivasha deriva dal vocabolo Maasai Nai’posha, che significa “acque turbolente”, a causa delle tempeste improvvise.

Eppure, nonostante l’immaginario sublime evocato dai fiori, ci sono davvero molti lati oscuri che rendono non proprio fair questo mercato africano e ciò che si produce attorno al paradiso del Naivasha.

Parliamo di un business fatto di sfruttamento lavorativo e ambientale, di insicurezza e pericolo per la salute di chi ci lavora e di diritti delle donne in gran parte calpestati.

«Il monopolio è europeo e queste aziende delocalizzano, sfruttando il lavoro africano – ci spiga fra Ettore Marangi, missionari dei Frati minori nello slum di Nairobi – Chi lavora nelle serre viene pagato una miseria».

I costi bassissimi del lavoro sono un incentivo per i produttori olandesi che così approfittano delle condizioni generali del mercato africano. La strategia è delocalizzare in Africa per spendere meno.

La maggior parte dei lavoratori impiegati nelle serre sono donne e la maggior parte di esse guadagna meno di tre dollari al giorno: la paga media è di 89 dollari al mese.

 Condizioni lavorative pesanti, dunque, licenziamenti senza preavviso, abusi sessuali e contatto dei lavoratori con prodotti chimici dannosi per la pelle sono la normalità nelle serre del lago Naivasha in Kenya.

«Tre dollari al giorno è davvero troppo poco: è chiaro che questo, come altri mercati redditizi per l’Europa (quello del cacao e del cioccolato ad esempio, ndr.) non arricchiscono gli operai e i floricoltori africani, ma le tasche degli imprenditori locali e soprattutto di quelli europei», ci spiega Fabrizio Cavalletti, responsabile del settore Africa di Caritas Italiana.

Ma i problemi non finiscono qui.

(L’articolo prosegue sul numero di marzo di Popoli e Missione. Per richiedere una copia gratis scrivi a popoliemissione@missioitalia.it).