Viaggio nella missione, a Castel Volturno

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Botteghe prive d’insegna, case abusive e diseguali, bar eccentrici e sabbia che arriva fin sopra l’asfalto. Grandi magazzini di mobili in serie e piccoli caseifici di bufala. Un ragazzo in ciabatte aspetta rassegnato il suo bus che non arriva mai; due studentesse africane si consultano prima di entrare al Centro Fernandes per seguire la lezione di italiano.

E’ desolata la via Domitiana dopo il tramonto e somiglia ad uno strano far west: nel 95 d.C. l’imperatore la fece costruire per rendere ancor più ricco il vasto impero e collegare Pozzuoli al resto del mondo.

Oggi, lungo questi 27 chilometri di strada sofferente si snoda l’intero paese di Castel Volturno: 26mila abitanti registrati, 4mila dei quali stranieri, oltre diecimila famiglie tra italiane e africane. L’aria verso sera si fa acre: sa di plastica bruciata, frutta marcia e fumo nero. La terra dei fuochi brucia forte. Nell’ex Campania Felix non si coltiva quasi più.

Guardando in direzione mare, fa capolino qualche albero della pineta sventrata, polmone verde che lentamente sta morendo.

Ad accompagnarci in questo tour surreale è padre Daniele Moschetti, missionario comboniano, a Castel Volturno da poco meno di un anno.

«Benvenuti in Africa!» dice e ci mostra il frutto di un abbandono di “sistema” che risale ad almeno una trentina d’anni fa, quando abusivismo e mafie nostrane decisero il destino di un’intera comunità.

«Questa era la costa prediletta dalla media borghesia campana, dove sorse alla fine degli Anni Sessanta il celebre villaggio Coppola», quasi del tutto abusivo, creatura dei “palazzinari” fratelli Coppola.

La bellezza ha cominciato a sfiorire negli Anni Novanta come risultato di speculazione edilizia, investimenti privi di piano regolatore e misere lotte intestine.

Ed è così che il mare si è portato via una parte dell’abuso e il vuoto ha lasciato spazio ad un altro pieno. Oggi sulla via Domitiana gli alberghi a ore si alternano ad ex hotel a quattro stelle, alle connection house (case d’appuntamenti e spaccio), agli store che vendono riso e verdure. Alle donne, nigeriane o slave, che aspettano in strada i loro clienti. Agli uomini senza più identità.

Malavita e abusivismo

«A differenza di quel che si pensa, questa non è una cittadina pericolosa dal punto di vista della sicurezza personale, almeno non così come viene raccontato dai media – spiega padre Daniele – Ci vivono tante famiglie con figli, persone che cercano di ricreare una loro vita dignitosa». Certo le condizioni ambientali non le facilitano.

«La vera ragione per cui Castel Volturno pullula di immigrati non è tanto la ricerca di un lavoro, che praticamente qui non si trova e costringe a spostarsi ogni mattina verso Napoli, ma la disponibilità di case», ci spiega padre Daniele. Che cosa intenda davvero lo capiremo solo in seguito.

Uomini e donne, soprattutto nella prima ondata migratoria, si sono infilati come topi tra le macerie nelle case abbandonate, abitazioni che nessuno più voleva perché inagibili o fuori mercato.

«Ma i loro figli stanno crescendo e sono pienamente inseriti nelle scuole; questi ragazzi sono italiani di fatto, se non per legge – dice Daniele – I disagi per gli immigrati sono ancora tanti, ma derivano anzitutto dalla difficoltà a regolarizzare i documenti e a trovare un lavoro stabile che permetta loro una vita degna». Il risultato è una curiosa “inculturazione” tra Italia ed Africa, una matrice unica nel suo genere, che in certi momenti fa dubitare persino d’essere in Europa.

Gennaro ha 30 anni, è campano da generazioni e gestisce un piccolo alimentari-magazzino sulla via Domitiana. L’insegna parla da sé: “Genna store 2.0 African food”.

All’interno decine di sacchi di riso posti uno sull’altro, bottiglie di plastica contenenti olio di girasole per friggere, scatolame, farina all’ingrosso e pacchi di pasta senza marca.

«Il 90% dei miei clienti è africano – dice lui – e la mia merce è per loro. Normalmente non faccio credito a nessuno, ma se mi arriva una mamma che magari non può pagare subito, come faccio a dire di no?».

Dal negozio entrano ed escono ragazzi senegalesi, ghanesi, giovani donne cariche di buste e di bimbi avvinghiati sulle schiene.

Castel Volturno non somiglia neanche al nostro Meridione più abusato. E’ piuttosto simile ad una sperduta periferia del Sud del mondo. Rifugio degli ultimi. Porto quasi sicuro per gli invisibili. Tanto che registi come Matteo Garrone l’hanno eletta a set privilegiato per i loro film più suggestivi, come Dogman, girato al villaggio Coppola. Qui giacciono come fantasmi alcuni palazzi dalle forme tondeggianti o squadrate, tipici degli Anni Sessanta. Ma cosa può fare la Chiesa oggi, in un contesto del genere?

Missione Black and White

«La missione deve interessarsi sempre di più a queste realtà e annunciare il Vangelo con coraggio e audacia alla gente delle periferie – risponde padre Daniele – La missione è globale ed è sempre più un ritorno verso il Nord».

Nella seconda metà degli anni Novanta il comboniano padre Giorgio Poletti da Casavatore visitò Castel Volturno e la riconobbe come luogo-sfida per i comboniani: il primo gennaio del 1997 venne nominato parroco e così l’avventura missionaria ebbe inizio.

Nel 2018, con padre Antonio Guarino e poi con Daniele Moschetti, la comunità diventa responsabile della prima accoglienza dei migranti del Centro Fernandes, una delle “opere segno” della Caritas di monsignor Pasini.

«La dimensione sociale per noi qui è sempre più cruciale, accanto all’evangelizzazione e alla cura spirituale – dice Daniele – Prova ne è la fondazione nel 2001 dell’Associazione Black and White che ininterrottamente porta avanti iniziative importanti: dall’asilo nido per bambini di mamme africane lavoratrici, al doposcuola per tutti, italiani e stranieri; fino alla promozione della donna in vari ambiti come quello della lingua e poi la sartoria».

Black and White opera a Destra Volturno, la zona ghetto della città proprio sulla spiaggia, dove la popolazione è per oltre il 50% africana.

«Io uso spesso l’immagine della passata di pomodoro – spiega padre Sergio, da quattro anni a Castel Volturno dopo una vita a Lima – Nel senso che di problemi ce ne sono dappertutto, ma qui è un vero concentrato! E’ il risultato di tanti fattori che si sono sovrapposti e mescolati nel tempo. Con queste tensioni è un piccolo miracolo che non esplodano violenza, rabbia o scontento e che si mantengano rapporti tutto sommato equilibrati tra italiani e stranieri.

Non si può parlare di integrazione ma di una certa convivenza sì». La casa dei comboniani sorge accanto al centro Fernandes, sulla Domitiana, ed è un punto di riferimento per i più soli.

Ogni mattina a turno i padri dicono messa nella cappella del Fernandes. Le loro porte sono sempre aperte per chi abbia bisogno di una parola, di un caffè, di un aiuto morale o materiale. Padre Sergio, padre Carlo e padre Daniele, ognuno col suo approccio personale al mondo, sono presenze attive e trasformative sul territorio.

Uomini e topi a Destra Volturno

Il primo impatto con Destra Volturno è scioccante, nonostante il sole, la spiaggia larga e il profumo di salsedine.

In una delle ex villette la scala esterna che portava ai piani alti è crollata per metà. In un’altra manca il tetto e tutto pende tra la sabbia e gli scogli. Le case sono state costruite laddove il mare senza argini le avrebbe ben presto rosicchiate.

Sembra una città bombardata, ma non è la guerra. Un sole rosso di tramonto e il profumo di iodio salgono su da occhi e narici. Il brutto si mischia al bello. «Ma come si fa a non vedere che questo è un territorio violentato da malavita e abusivismo? Se la sono presa con gli immigrati che erano e sono non la causa, ma l’effetto di un degrado. La paura ti fa vedere quello che non c’è: ha un effetto drogante, non individui più le colpe reali», ci spiega Antonio Casale, direttore del Fernandes.

«Io dico invece che gli africani, il cui boom risale agli anni Ottanta, sono stati il dono inaspettato emerso dal degrado – aggiunge Casale – Abbiamo avuto la fortuna di ricevere persone arrivate soprattutto dalla Nigeria, perché qui avevano trovato uno spazio vuoto».

Erano i vecchi luoghi da ri-occupare e far rivivere. Ma accadde anche che dopo il terremoto in Irpinia, molte di queste case furono requisite e le famiglie italiane terremotate vennero trapiantate qui da Pozzuoli e Napoli: «Quella che doveva essere una ubicazione provvisoria, è diventata dimora stabile –spiega -.

Abbiamo una piccola minoranza di castellani e una gran maggioranza di napoletani». Così col tempo le povertà straniere si sono sommate a quelle italiane.

«Scrivetelo come stiamo combinati! Raccontatelo, fate conto che io sono vostra madre», ci grida dal balcone la signora Teresa, una sessantina d’anni, facendo segno di guardare le fondamenta traballanti della sua casa. E’ una famiglia campana di cinque persone questa, con una ragazza disabile; vivono tutti assieme in una villetta (un tempo bella) sulla spiaggia a rischio crollo, senza elettricità.

Pagano un affitto di 300 euro al mese. Poco oltre incontriamo una famiglia nigeriana che vive in una casa estesa ma abbandonata. La prossima domenica sarà festa grande da Mary: il piccolo Emanuel, l’ultimo arrivato che lei tiene ben saldo sulla schiena, verrà presentato alla comunità africana di Destra Volturno. Per l’occasione si mangerà il montone, appena comprato dal capofamiglia, al pascolo nel campo sul retro.

La zia Blessing aiuta ad organizzare la festa: le due ragazze sono parrucchiere e quando entriamo stanno intrecciando capelli posticci che applicheranno sulle teste delle donne del quartiere. In questa visita ci accompagna Martin, 39 anni, da 11 a Castel Volturno, ormai un mito nella comunità ghanese. Martin ha uno strano accento campano.

Tutti lo conoscono, molti lo amano. Per i missionari comboniani è un prezioso mediatore culturale. «Ogni 3 ottobre io festeggio: ricordo la data del mio approdo in Italia, dopo il viaggio nel deserto e in mare, sfuggito dalla Libia», ci spiega. Anche Martin vive in un ex villino abbandonato senza riscaldamento e con pochi essenziali pezzi d’arredamento.

Andiamo insieme a trovare una coppia ghanese che viene dal Sudafrica e ha un bimbo di un anno. Ci accomodiamo sul divano mentre Mary fa una videochiamata ai suoceri in Sudafrica.

Con loro c’è anche Liberty, una ragazza nigeriana con un bimbo ancora più piccolo: Martin ci spiega che era finita nella trappola della prostituzione, poi si è innamorata e ora vive col suo compagno fuori dal giro criminale.

Passiamo anche accanto alla moschea, guidata dall’imam Kasim bun Yamin, amico dei padri comboniani e confidente delle tante famiglie musulmane del ghetto. «Qui i problemi per gli africani sono di ordine pratico: se avessero documenti e lavoro sarebbero tutti più sereni», ci confida Kasim che parla di dialogo interreligioso.

Casa del Bambino al ghetto

I comboniani hanno scelto non a caso proprio Destra Volturno per una parte decisiva della loro missione: qui sorge la Casa del Bambino, un doposcuola creativo, fiore all’occhiello della Black and White. Arriviamo la sera del 31 ottobre, per Halloween: su dal balcone si intravede uno spicchio di luna nuova; la luce bianca si riflette su una specie di laguna.

Le bambine indossano ali da fatina o corna rosse da diavoletto; bimbi italiani e africani insieme sono coperti da lenzuola con i buchi per gli occhi. Seduti per terra ascoltano gli animatori che danno istruzioni sul gioco, mentre attendono la torta a forma di zucca. Con loro c’è la responsabile e coordinatrice del Centro, Paola Russo.

«Inizialmente ospitavamo bimbi di mamme prostituite sulla via Domitiana: tutto è nato per loro – ricorda Paola – Piano piano quel luogo è diventato un asilo per bambini piccoli polacchi e ucraini. Poi però la richiesta si è focalizzata sul doposcuola per i più grandi. E si è ragionato sul cambiare luogo. Nel 2014 ci siamo spostati a Destra Volturno: la scelta era andare ancora di più verso i margini per entrare in quello che a tutti gli effetti è un ghetto».

Paola ricorda che «a padre Guarino non piaceva che parlassimo di ghetto, ma in effetti questo è un quartiere illegale. Mancano persino le tubature. Quando piove il lago diventa parte della strada, non straripa ma non contiene neanche. Basta un po’ di pioggia e l’acqua sale». Che cosa fa esattamente la Casa del Bambino?

«Noi non vogliamo sostituirci alla scuola – precisa Paola -: i bambini arrivano qui nel pomeriggio, fanno i compiti e seguono i laboratori diversificati per fasce d’età. La frequenza è altalenante, ma c’è uno zoccolo duro di iscritti che al momento non può superare le 50 persone».

Sono molte anche le famiglie italiane e naturalmente si tratta dei più poveri tra i poveri.

«Il disagio che è espresso da queste famiglie locali è, direi, se possibile anche superiore rispetto a quello degli africani», afferma Paola. Perché la famiglia africana possiede «un approccio alla genitorialità molto solido – dice – Le mamme si prendono cura del bambino, non ci sono moltissimi padri, ma le mamme ci sono eccome!».

Il contesto italiano è tra i più degradati invece: «C’è gente che ha bisogno di nascondersi, persone che vivono agli arresti domiciliari, il sindaco parlava di 700 arresti domiciliari».

Eppure, ancora una volta emerge la contraddizione magica: «Questo è anche un posto che conserva una sua selvaggia bellezza: d’estate è splendido, nel periodo in cui arrivano gli uccelli migratori trovi i fenicotteri rosa! Noi usiamo il parco come giardino comunale, anche se non lo è. C’è la duna e poi c’è il mare a due passi».

Eppure se capita di passeggiare per questi piccoli vialetti brulli di notte «un mondo sommerso si agita: questa è una pista di spaccio volante, prima c’era anche una connection house», dice. E allora la Chiesa sa che è proprio qui che bisogna stare.

 Il centro Fernandes

Costruito dalla famiglia Fernandes-Nardi nel corso degli anni Settanta, quello che oggi è un Centro servizi per immigrati gestito dalla Caritas, era una colonia estiva dell’Opera don Guanella.

Qui i bimbi senza famiglia trascorrevano settimane al mare per respirare aria buona in una delle località più “in” dell’epoca. Segue un periodo di chiusura, occupazione abusiva e sbandamento. Alla metà degli anni Ottanta l’edificio era luogo di ricovero per i senza tetto, gli spacciatori e le prostitute.

«Questo edificio fu preso di mira da tutte le forze politiche e divenne il simbolo di una immigrazione selvaggia e clandestina – ricorda l’attuale direttore, Antonio Casale – Iniziarono le prime proteste. Venne chiamato ghetto.

Ma la Caritas non stette a guardare e tentò di contrastare la crescente ondata di xenofobia rilanciando il Fernandes». Dalle parole ai fatti: il costruttore lo donò alla Caritas che ne fece un progetto su misura, una delle cosiddette “opere segno”.

Nel 1996 il Fernandes si trasforma in una struttura di Prima Accoglienza per Immigrati, inaugurata dall’arcidiocesi di Capua, sotto la guida di monsignor Luigi Diligenza e del direttore della Caritas diocesana di allora, don Andrea Riccio.

«Non nasce come una comune opera di solidarietà ma come un progetto concepito assieme alle istituzioni: sapevamo che quello delle migrazioni andava affrontato come un fenomeno epocale», ricorda il direttore.

E così fu, con alti e bassi, battaglie per la legalità e contrasto alle crescenti opposizioni politiche. In questi 20 anni oltre tremila immigrati hanno beneficiato di accoglienza e sostegno: una vera e propria oasi di solidarietà lungo la statale Domiziana.

«Io dico sempre che abbiamo visto prima degli altri quello che sarebbe accaduto poi – dice Casale – La Chiesa non era preparata, ma aveva una sua intelligenza profetica».

Oggi qui si offrono una serie di servizi alla persona: prima accoglienza, anche notturna, mensa, consulenza legale, ambulatori medici. «E’ una fiaccola sul monte per chi ha bisogno e sa che qui la Chiesa c’è davvero – ancora Casale – E’ un baluardo che negli anni, tra mille attacchi, ha costituito un ammortizzatore per i poveri e per i migranti appena arrivati in Italia», spiega.

Uno dei progetti più delicati è quello di ospitalità alle donne vittime di tratta della prostituzione, che si chiama “Fuori Tratta”.

«Abbiamo ripreso un filone che già esisteva, ma con un progetto strutturato. Siamo enti attuatori in una rete più vasta che ha come capofila la cooperativa sociale Dedalus», spiega.

Al momento sono tre le ragazze ospitate negli alloggi del Fernandes e con loro ci sono le suore filippine dell’Ordine delle Francescane dei Sacri Cuori.

Comboniani e futuro

Il prossimo passo molto audace sarà quello di aprire la missione sempre di più ad africani e italiani insieme. Affinché il ghetto non sia più tale.

«La vera sfida è progettare e mettere in pratica una presenza pastorale e missionaria che favorisca cammini di interazione tra le diverse comunità di migranti e di italiani», spiegano padre Sergio e padre Daniele.

«Non dobbiamo necessariamente continuare a fare ministero in questo quartiere, sulla via Domitiana; pur abitando qui possiamo aprirci ad altre realtà molto degradate, emarginate e di frontiera del territorio come sicuramente è Destra Volturno».

I comboniani dicono che vogliono essere una comunità aperta e disponibile e che per questo si stanno «costruendo collaborazioni con sacerdoti e laici per dare vita a un Centro Missionario Diocesano propulsore di iniziative e formazione della coscienza missionaria per sacerdoti, gruppi, parrocchie, giovani, scuole».

In un documento congiunto scrivono: «Sentiamo l’importanza di coinvolgerci in questo ambito della pastorale diocesana nella quale la dimensione missionaria è quasi inesistente.

Può aiutare la dimensione missionaria in stretto rapporto con la Migrantes diocesana che sovraintende ai migranti e a quella dell’ambiente ed ecologico che qui è una dimensione molto vitale in quanto Terra dei Fuochi».

La Black and White, nata per integrare e sostenere un dialogo tra immigrati e italiani, «può diventare un centro di aggregazione e di proposte non solo per i ragazzi del doposcuola e il gruppo di donne della sartoria solidale, ma anche per famiglie, giovani, adolescenti e adulti».

Un’attenzione particolare merita la società civile che richiede «risposte sociali, spirituali e pastorali per le tante criticità presenti. Lavorando sempre in rete, senza affanno di protagonismo, collaborando con tutti coloro che sono disponibili e desiderosi di impegnarsi».