Turchia: il caso Kavala riaccende i riflettori sull’agonia della società turca

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Il caso di Osman Kavala, l’attivista e filantropo turco da tempo dietro le sbarre per aver difeso la democrazia, ha aperto una nuova diatriba diplomatica tra Turchia da una parte, e Stati uniti ed Europa dall’altra.

Ma ha anche riacceso i riflettori sulla sofferenza di una società civile turca da oltre cinque anni vittima di continui abusi di potere e di repressione sistematica da parte delle istituzioni.

L’affaire dei dieci ambasciatori schierati per la liberazione di Kavala e considerati da Erdogan “persona non grata”, oltre a creare un forte attrito diplomatico, consente di alzare il velo sul (quasi) rimosso liberticidio in corso.

Era il 15 luglio del 2016 quando il presidente turco Recep Tayyip Erdogan annunciava uno sventato Colpo di Stato ai suoi danni, incitando i suoi sostenitori a scendere in strada in difesa del regime. 

Da allora le ‘purghe’ erdoganiane sono una costante: la società civile è sempre meno libera e chi si espone in prima persona finisce dietro le sbarre.

Osman Kavala, molto amato all’estero, sostenitore di decine di battaglie della società civile turca a partire dagli anni Novanta fino alle rivolte di Gezi Park nel 2013, è solo una delle tante vittime del ‘sistema Erdogan’.

Dopo essere stato arrestato e condannato a due anni di carcere, a febbraio 2020 Kavala stava per lasciare la prigione di Ankara. Ma è tornato dietro le sbarre.

Erdogan ne ha ordinato una nuova incarcerazione sulla base di altre ‘prove’ stavolta legate al secondo capo d’accusa: la partecipazione al fallito colpo di Stato del 2016.

Quell’anno (e quell’evento) furono uno spartiacque importante per il popolo turco, poiché segnarono il successivo giro di vite del “sultano” che ha messo a tacere le molte voci dissenzienti, comprese quelle dei comuni cittadini.

Human Rights Watch, la Commissione Internazionale dei Giuristi e il Turkey Human Rights Litigation Support Project, hanno divulgato documenti congiunti per chiedere l’immediata scarcerazione di Kavala, ricordando il verdetto della Corte europea dei diritti umani. In Turchia i perseguitati politici però aumentano di giorno in giorno.

Ma il caso Kavala, punito dal regime per aver sempre tenuto posizioni pro-democrazia, è qualcosa di più che un affaire giudiziario: è la riprova che il sistema dispotico sta mettendo in ginocchio un intero popolo.

L’abuso subito da Kavala è la norma in Turchia: un rischio quasi certo che corrono tutti coloro (comuni cittadini compresi) che decidono di esporsi pubblicamente contro il governo.

La protesta, finita in tragedia lo scorso anno, del gruppo musicale Group Yurum messo al bando da Erdogan, ha riportato l’attenzione del mondo su un’emergenza che non è mai finita: il regime decide chi può o non può esprimere la propria arte, la propria opinione, la libertà di parola.

Nel giro di pochi mesi tre componenti di questa band (famosa per la versione turca di “Bella Ciao” e per avere sempre difeso la causa curda) sono morti uno dietro l’altro durante un lungo sciopero della fame.

Da due anni non potevano più salire su un palco: erano censurati da Erdogan. Il decesso del bassista Ibrahim Gokcek ha commosso il mondo poiché è sopraggiunto subito dopo la sua decisione di sospendere la protesta.

L’emergenza Covid-19 ha ulteriormente accentuato la tendenza alla repressione, come avvenuto in molte altre “non democrazie” o regimi mascherati da sistemi democratici.  

Una delle novità più vistose ha riguardato la repressione degli ordini professionali, compresi quelli degli avvocati, e le associazioni dei sindacati.

Il presidente Erdogan li perseguita poiché si sono esposti contro alcune iniziative liberticide del clero islamico.

Il problema in Turchia è anche un’“islamizzazione” anacronistica della società, che si rifà al passato imperiale ottomano (si parla di neo-ottomanesimo) e fa perno su un uso distorto della fede islamica e dei suoi precetti.

(Le foto del pezzo sono dell’Afp).