Il racconto di un fidei donum che spiega come si vive in uno dei 14 campi del Paese

Sudan: esercito e paramilitari al rimpallo delle responsabilità, i civili scappano in Ciad

I nostri missionari restano nel Paese devastato

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Quattordicesimo giorno di conflitto in Sudan: migliaia di civili tentano disperatamente la fuga a piedi o sui bus attraverso i confini, cercando rifugio in Sud Sudan, Egitto, Etiopia e soprattutto in Ciad.

I video della Reuters mostrano i campi profughi del vicino Ciad già al collasso perchè sovraffollati. (clicca qui). Molti di loro raggiungono anche Juba, in Sud Sudan.  

D’altra parte in Sudan i bombardamenti non si sono mai fermati nonostante il cessate-il fuoco di tre giorni ripetutamente violato da entrambe le parti.

Ciononostante i paramilitari delle Rapid Support Forces ai comandi del generale Hamedti, spinti dall’Arabia Saudita, hanno annunciato stamani di voler estendere la ‘tregua’ per altre 72 ore.

I due generali fanno a gara per rimpallarsi la responsabilità dei bombardamenti aerei dentro e attorno alla capitale, e per proporsi come fautori di una nuova tregua. 

Sia a Nord di Khartoum che nella zona di Omdurman sono piovute bombe: a riferirlo è il sito web della tv panaraba Al Jazeera.

«Le RSF hanno accusato l’esercito regolare Sudanese di aver lanciato airstrikes sulle loro postazioni- scrive al Jazeera – a loro volta le Forze di supporto rapido sono state accusate d’aver colpito un aereo turco durante le operazioni di evacuazione a Wadi Seyidna, l’aeroporto fuori Khartoum».

Non ci sono stati feriti ma grandi tensioni. Nel Paese i morti per ora sono oltre 400.

Hamedti possiede ben «100mila soldati, si tratta di un esercito parallelo di vastissime dimensioni: è l’esercito privato più grande di tutta l’Africa – ci racconta al telefono una fonte missionaria che si trova fuori dal Paese –

Pertanto era quasi impossibile che accettassero di venire assorbiti dall’esercito regolare, come richiedeva la road map della transizione democratica, composta da tre punti in agenda e mai rispettata».

Le tre date della road map erano fissate al primo aprile, il 6 e l’11 aprile, quando si sarebbe dovuto presentare un nuovo esecutivo, di stampo civile e non militare.

La firma degli accordi è stata rimandata sine die.

«I due punti di maggior attrito, rispetto ad un accordo tra i generali – spiega ancora la fonte – restano la questione dell’integrazione dei rispettivi militari in un unico esercito nazionale, e quella della gestione delle risorse minerarie, in particolare delle miniere d’oro».

Queste ultime sarebbero dovute passare sotto la giurisdizione di un ministero facente parte del nuovo assetto democratico.

«Da entrambe le parti c’era una resistenza alla transizione verso la democrazia – precisa il missionario – Secondo Hamedti, sarebbe lui a rappresentare i civili, ma in realtà i civili non si sentono per nulla rappresentati né dai militari né dai paramilitari».

E la società civile sudanese per almeno quattro anni si è battuta invano  – sistematicamente repressa dall’esercito – per una transizione trasparente e concordata.

È per questa ragione che i missionari in loco, e anche diversi analisti, non vogliono parlare di guerra civile e dubitano che questa sia la giusta interpretazione per una guerra che appare invece di «potere e di posizionamento».

«Se con guerra civile intendiamo il confronto tra due popoli o due fazioni della popolazione del Sudan in lotta tra loro, allora no questa non è una guerra civile», dice la nostra fonte missionaria.

Anche parlare di contractos così come li intendiamo noi in Occidente, non è completamente esatto: «Hamedti possiede un esercito molto unificato e molto leale: i suoi soldati nonostante siano mercenari, sono molto devoti», dice. E sentono molto forte la questione etnica.

In questi ultimi tre giorni il Sudan si è praticamente svuotato di tutti gli internazionali expat che lavoravano nel Paese a vario titolo, evacuati verso Gibuti e da lì trasportati nei rispettivi Paesi d’appartenenza.

Non hanno invece lasciato il campo i nostri missionari: dai padri comboniani che hanno deciso di restare (eccetto un padre spagnolo piuttosto anziano che è partito con il ponte aereo dei giorni scorsi), alle suore comboniane ancora in loco, sebbene incerte se cercare rifugio fuori dal Paese, alle suore di Madre Teresa di Calcutta, ai missionari salesiani che si trovano nella capitale.  

«I nostri confratelli che risiedevano a Khartoum sono ora ospitati nella zona di Omdurman che è al momento più tranquilla- scrive il Consiglio generale dei comboniani –  In questo momento le altre comunità sono quelle di El Obeid, di Kosti e di Port Sudan, e tutte sembrano al momento sicure.

Circa le decisioni, per l’immediato e per il futuro, è stato comunicato a tutti di sentirsi liberi di scegliere se rimanere o partire».

Oltre a Khartoum con nove confratelli, i missionari salesiani fanno sapere di essere presenti a El Obeid, comunità di santa Bhakita dove sono in quattro.

Fin quando «non diventerà impossibile per loro sopravvivere alla scarsità d’acqua, di cibo e di energia, resteranno nella capitale», scrivono dalle Missioni Don Bosco.