Sud Sudan: il Paese dai dieci eserciti e dalle armi facili

Dopo l'agguato a padre Christian Carlassare la Chiesa locale è sotto accusa, ma "la Chiesa qui è anche molto altro", dicono i missionari.

Facebooktwitterlinkedinmail

«Tutto andrà per il meglio: tornerò a camminare e riprenderò il mio servizio missionario.

Ero nel letto sofferente, ma ho visto che la sofferenza della gente era molto più forte della mia. Avevano paura che li lasciassi o che mi avessero in qualche modo deluso».

Dall’ospedale di Nairobi, padre Christian Carlassare, vescovo eletto della diocesi di Rumbek in Sud Sudan, ha rivolto ieri un pensiero anzitutto ai suoi fedeli e poi ai suoi aggressori, parlando di misericordia e perdono.

«Si cerca sempre la giustizia ma ci si dimentica della misericordia», ha aggiunto in un video il comboniano, vittima di un agguato due giorni fa nella sua casa a Rumbek.

Questa diocesi è in effetti sotto schock dopo l’arresto di 12 persone (tra cui tre sacerdoti), accusate dell’aggressione armata contro il neo-vescovo che il 23 maggio avrebbe ricevuto l’ordinazione episcopale.

«La giustizia ora deve fare il suo corso e i responsabili puniti, ma io vorrei ricordare che la Chiesa in Sud Sudan è una realtà molto diversificata, è anche una coscienza critica: l’unica che può dare fiducia alle persone», ci ha detto al telefono padre Daniele Moschetti, confratello di Carlassare che ha vissuto molti anni in Sud Sudan e ne conosce ogni sfumatura sociale ed etnica.

«Non dimentichiamo – dice – che quotidianamente si attaccano vescovi, preti locali, e soprattutto laici e i soprusi sono molto frequenti». Le chiese, missionarie e non, in Sud Sudan «sono porti aperti».

Padre Antonio Guarino, comboniano, al telefono dallo Zambia, aggiunge: «noi dovremmo spesso imparare dalla fede di questa gente. La diocesi di Rumbek è rimasta senza vescovo per dieci anni e nonostante tutto è andata avanti tra gli sbagli, e c’è una comunità che resiste».

Inoltre – precisa – quello che è successo a padre Carlassare «ci deve interrogare profondamente come missionari: dobbiamo capire bene qual è intenzione dei giovani seminaristi quando vogliono diventare preti e fare un’analisi sul nostro modo di evangelizzare. Questi ragazzi spesso escono da anni di guerra e ho visto che portano il trauma di una vita violenta».

Il contesto socio-politico che fa da cornice all’attentato a padre Christian, ancora tutto da chiarire, è tra i più complessi dell’Africa Subsahariana.

«Il Sud Sudan è un Paese al collasso – dice Daniele Moschetti – L’elemento più difficile da digerire è l’estrema frammentazione».

 

«Se esiste un solo governo di coalizione -dice Moschetti – ancora non c’è un unico esercito. In Sud Sudan si muovono liberamente almeno dieci eserciti diversi! Tanti quanti sono i gruppi etnici. Le etnie non si limitano a quella Dinka e Nuer.

Quasi tutti i generali hanno accettato di comporre un governo di coalizione, ma i ribelli non hanno mai deposto le armi».

Il Paese è guidato dall’ex generale ribelle Salva Kiir Mayardit e dai sui quattro vice, tra cui il rivale di sempre, Riek Machar. I due si sono combattuti in una feroce guerra civile per almeno sette anni, fino all’epilogo del 2020.

Le opposte fazioni – gruppi armati ribelli che reclamavano fette di potere e territorio – hanno trovato un ulteriore accordo a giugno 2020, basato sul ‘power sharing’: l’esatta spartizione del Paese in dieci governatorati, ognuno rappresentato da un gruppo.

«Le etnie sono da sempre in conflitto per la gestione dei pascolici spiegava tempo fa suor Elena Balatti, comboniana – Ma la conflittualità interna che un tempo veniva tenuta sotto controllo, è esplosa in maniera esponenziale da quando nel Paese è stato introdotto un fitto commercio di armi leggere e pesanti».

La feroce crisi economica è data dalla bancarotta: nel periodo della guerra civile i ribelli in lotta contro il governo hanno distrutto i tanti pozzi di petrolio che il Sud Sudan possedeva, e che adesso sono tutti da ricostruire.

(Foto apertura Pexel, libera da copyright. Di Tope A. Asokere da Pexels)