Papua Nuova Guinea, l’isola di tesori

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Oro, petrolio, gas, minerali pregiati, giacimenti enormi e appetiti internazionali sullo Stato dell’Oceania abitato da oltre mille etnie con 700 lingue.  

 «Un isola d’oro, ricca di gas che galleggia su petrolio».

Questa è Papua Nuova Guinea secondo una definizione popolare, ben radicata nella realtà delle cifre che vedono questo Stato come l’ottavo produttore al mondo di oro con le miniere di Kainantu, Ok Tedi, vicino al confine indonesiano, Porgera, Lihir e Panguna da cui si estraggono anche grandi quantità di rame.

Non mancano giacimenti minerali in fondo all’Oceano Pacifico, con il controverso progetto di seabed mining della compagnia mineraria canadese Nautilus Minerals, una delle tante multinazionali canadesi, australiane e cinesi impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del Paese.

Per non parlare delle trivellazioni offshore di Exxon Mobil e di Total che investe molto in progetti di estrazione fossile.

Il 90% delle risorse naturali va alle multinazionali e alimenta la piaga della corruzione interna. Infatti l’altra faccia della medaglia di tante ricchezze è che Papua Nuova Guinea, Stato indipendente del Commonwealt con a capo Carlo III d’Inghilterra, è uno dei più poveri dell’Oceania in cui la maggior parte della popolazione vive di pesca e agricoltura.

Chiamata anche “l’isola delle orchidee” per la varietà dei suoi fiori esotici, Papua Nuova Guinea, angolo remoto nel cuore di un’area oggi strategica e contesa come il Pacifico, non finisce di stupirci per le sue contraddizioni: dal mosaico degli oltre 800 gruppi etnici originari alla rapida trasformazione con tecnologia made in China e stili di vita occidentali; dall’abbandono dei villaggi rurali alle città fino ai cambiamenti climatici che hanno già imposto l’abbandono di alcune regioni costiere.

Un melting pot straordinario di cui ci parla don Christian Banda, 43 anni, sacerdote papuano, in Italia per motivi di studio in attesa di tornare nella sua terra.

«Siamo un Paese giovane- spiega-, abbiamo raggiunto l’indipendenza nel 1975 dall’Australia e ancora prima era stata colonia inglese.

Molti lo conoscono come una meta esotica, lontana anche se non è entrata nel circuito turistico internazionale.

È anche uno degli 11 Stati del Commonwealth che hanno il re di Inghilterra come capo di Stato, ricordo anacronistico dei tempi del colonialismo, anche se si tratta di un ruolo puramente formale».

Oltre al general governor, c’è infatti un parlamento con 111 membri eletti dal popolo, il primo ministro James Marape in carica dal maggio 2019, che ha già incontrato diverse volte Xi Jinping in merito allo spinoso tema della creazione di porti cinesi (e non “basi militari”si è specificato sotto pressioni statunitensi) sulle coste.

Mentre oggi sembra non ci sia più un angolo di terra del pianeta che non sia stato già raggiunto dagli appetiti geoeconomici delle grandi potenze, di fatto Papua Nuova Guinea è una realtà ancora in parte inesplorata che sempre più si sta rivelando ricca di risorse.

Nella zona strategica del Pacifico le isole (come Taiwan e le Salomone, ad esempio) sono punti strategici d’interesse politico ed economico.

Papua si trova proprio nel mezzo tra Australia, Cina e Usa e secondo gli analisti in questo scenario asiatico si combatte “l’altra guerra” parallela a quella alle frontiere orientali d’Europa, in Ucraina.

L’accelerazione bellica di questi mesi si sente anche qui, mentre aziende australiane a americane corteggiano il governo di Marape che nel frattempo sta lavorando a piani di sviluppo per il 2050: progetti per dare un nuovo passo a Papua Nuova Guinea, non solo dal punto di vista economico ma anche ecologico.

Formato da cinque isole principali e 600 più piccole sparse nell’Oceano, il Paese racchiude una grande varietà di ecosistemi che vanno dalla neve delle montagne alle foreste tropicali, alle paludi e alle barriere coralline.

Il report del Wwf “L’ultima frontiera: nuove specie scoperte in Nuova Guinea” racconta di esemplari mai visti e sull’orlo di scomparire da questo paradiso della biodiversità esposto ai rovesci dei cambiamenti climatici.

In particolare l’ecosistema della foresta tropicale (la terza al mondo dopo quella dell’Amazzonia e del Bacino del Congo) è messo a durissima prova dal commercio di legnami pregiati.

E malgrado il difficile accesso a queste zone, l’habitat naturale e gli insediamenti umani sono esposti a serie minacce: se non si ferma subito questa tendenza nel 2050 saranno scomparsi 230 milioni di ettari di foresta.

 La maggioranza della popolazione (87%) che vive di agricoltura e pesca ed è povera è destinata a vedere aggravate le condizioni se non si cercherà di contrastare in ogni modo il cambiamento climatico, come spiega don Christian: «Nelle zone di montagna ora si può piantare la palma di cocco, una cosa impensabile 30 anni fa.

L’innalzamento del livello del mare è un altro problema serio.

Gli abitanti delle Carterets Islands hanno dovuto lasciare le loro case perche non potevano più coltivare il terreno o prendere acqua dolce dal pozzo a causa delle infiltrazioni marine.

Le loro scuole e il piccolo ospedale ora sono sott’acqua.

Questo popolo è diventato il primo gruppo di profughi a causa del cambiamento del clima.

Spostarsi altrove non è facile perchè da noi il 90% delle terre appartiene al popolo che ci vive sopra e non allo Stato.

Quando una tribù si sposta, lo Stato deve collocarli su un altro territorio che non sia già di proprietà di altri. E questo crea dei conflitti».

Buona parte dei quasi nove milioni di papuani, appartengono alle oltre mille tribù esistenti che parlano oltre 700 lingue (con vari dialetti), mentre quelle ufficiali sono il tok pisin, l’hiri motu e l’inglese.

Tra popoli originari e spinte verso il futuro, si sta vivendo una non facile epoca di transizione: «Isolate per millenni, in meno di un secolo queste etnie sono entrate in contatto con uno sviluppo sempre più veloce – spiega don Chrisitian -.

La zona interna del Paese è stata scoperta solo negli anni Trenta del secolo scorso dai missionari e dagli esploratori che cercavano l’oro.

Sono nato in un villaggio nelle montagne nella diocesi di Kundiawa e ricordo il primo cellulare arrivato nella mia zona nel 2007.

Oggi quasi tutti hanno un cellulare, anche nei luoghi più lontani adesso c’è una rete per collegarsi a internet. I popoli originari hanno saltato tanti millenni di storia dell’umanità.

Ci sono persone che non sanno leggere ma sanno usare il cellulare. In qualche decennio da noi è avvenuta una rivoluzione industriale e tecnologica che in occidente è durata secoli».

Social e strumenti digitali sono diffusi soprattutto tra i giovani, in un Paese in cui il 40% ha meno di 15 anni, molti non sanno come usare tutto questo e soprattutto come evitare i danni della rete (pishing, truffe on line, adescamento pedopornografico, ecc).

A parte la vita nella capitale Port Moresby, che con le grandi periferie cresciute in fretta conta circa un milione di abitanti, i papuani sono nelle zone rurali (84%), posseggono le terre che danno loro il necessario per vivere.