Palermo città aperta: una seconda chance per chi emigra (ed è accolto)

La Noce, opera sociale della Chiesa Valdese per la rinascita dei migranti, il Centro Astalli e una opportunità in più.

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E’ possibile passare dalla cultura dello scarto a quella dell’accoglienza? La Chiesa e la società civile italiana, come sta dimostrando la solidarietà dei cittadini di Crotone, sono più avanti della politica.  Qui raccontiamo buone pratiche: quella del Centro diaconale La Noce a Palermo e quella del Centro Astalli.

Doveroso soprattutto in questi giorni porsi la domanda: come sarebbe la vita di tanti uomini e donne venuti da lontano, se non ci fosse una rete di realtà pronte ad accoglierli?

Probabilmente senza la presenza, il sostegno e l’accompagnamento di operatori sociali e pastorali, volontari e persone di buona volontà, tanti non sarebbero più neanche vivi oppure le loro esistenze avrebbero preso pieghe e traiettorie diverse. La società civile dunque fa la differenza.

«La loro vita sarebbe stata quella di molti ultimi: senza casa, senza lavoro, senza le condizioni minime di assistenza», spiega da Palermo Anna Ponente, direttrice del Centro diaconale “La Noce”.

«Si tratta di un’opera sociale della Chiesa valdese presente sul territorio da 60 anni e che, in sinergia con altre forze cittadine, pratica un ecumenismo importante, fatto di azioni concrete, con al centro la persona».

Non si tratta solo di un’accoglienza istituzionale (vitto, alloggio, orientamento scolastico e sanitario). Dalla struttura protetta per le vittime di tratta all’housing sociale per soggetti vulnerabili con difficoltà transitorie, dal circuito del SAI alla scuola, l’idea trasversale è quella di «dare un senso alla sofferenza di persone costrette a separarsi dalla loro terra».

Anna Ponente, da 30 anni, ne incrocia tante ogni giorno e tocca con mano come l’accoglienza possa dare loro esiti diversi: Sliding Doors, cioè gesti, incontri ed eventi che possono trasformare decisamente il destino di qualcuno.

«E’ come avere l’occasione di una seconda vita», aggiunge.

E ci parla di un loro ragazzo, Abdullah, arrivato dal Gambia nel 2016.

«Per effetto del decreto Sicurezza di Salvini, in quanto maggiorenne, sarebbe potuto finire per strada; invece, grazie ad un’operatrice attenta e a degli insegnanti che hanno fatto rete, ha vinto una borsa di studio internazionale al prestigioso Collegio del Mondo Unito dell’Adriatico di Duino, a Trieste».

Non tutte le storie sono facili, ma sicuramente molte hanno tanto da raccontare.

Quella di Bandiougou Diawara, per esempio, attualmente un loro dipendente, è stata anche premiata a Firenze nel 2018 nell’ambito del concorso “Storie di resilienza”.

Il suo viaggio dal Mali passando per l’inferno della Libia lo ha portato in Sicilia dove, come afferma lui stesso, ha «trovato una nuova famiglia».

Lui che, se si guarda indietro, vede «un ragazzo entrare con passi incerti verso un percorso sconosciuto», oggi a Palermo sta realizzando il suo «sogno di fare qualcosa» per il Paese che lo ha accolto e con altri suoi coetanei rifugiati ha fondato l’impresa sociale “Giocherenda”.

«Ho sempre sognato di studiare e di aiutare gli altri, e sono stato aiutato io» continua Diawara.

«Se sono arrivato fin qui e ho potuto esprimermi al massimo del mio potenziale, lo devo a quelle persone che, offrendomi un piatto caldo e un tetto, hanno già risolto l’80% dei problemi di un migrante, e poi mi hanno spinto a fare quello che mi fa essere me stesso».

È evidente che se la sorte di tanti migranti fosse stata diversa, non solo loro, ma tutti avremmo perso qualcosa.

Di questa idea è padre Sergio Natoli, Oblato di Maria Immacolata e responsabile dell’Ufficio Migrantes Palermo, impegnato nell’accompagnamento delle comunità straniere.

Promotore dell’associazione “Arcobaleno di popoli”, il missionario vede i migranti «non come destinatari del servizio pastorale, bensì come persone che camminano lungo la strada della vita, protagonisti nella costruzione di una città plurale».

Palermo, infatti, non sarebbe la stessa senza di loro e senza la sua lunga storia di contaminazioni; appare multietnica, colorata e, soprattutto in alcuni quartieri, le realtà che offrono servizi e i loro utenti diventano spesso una comunità, una famiglia che condivide fatiche e conquiste.

È il clima che si respira, per esempio, a Ballarò nei locali del Centro Astalli, associazione di volontariato della rete territoriale del Jesuit Refugee Service che, in 16 anni, ha aperto le porte a sogni e bisogni di almeno 13mila persone.

Anna Ponente, direttrice del centro La Noce.

Ameth, del Gambia, è co-gestore di “Kirmal”, un’impresa sociale multietnica di ristorazione e comunicazione.

«Grazie al Centro Astalli, la mia vita è cambiata. Sono un rifugiato, ma sono prima di tutto Ameth, padre, cuoco e imprenditore».

Lotfi, anni fa, non aveva più la forza per prendersi cura di sé; nessuno voleva dargli una possibilità. «Qui sono stato ascoltato, ho trovato aiuto per rimettere a posto i miei documenti e la mia salute, e a piccoli passi ce l’ho fatta». L’elenco delle storie sarebbe lunghissimo.

Se un naufragio o un mancato soccorso in mare o a terra ci fosse stato, di tanti migranti non conosceremmo neanche i nomi.

Invece, esiste una cordata che costantemente, pur tra le difficoltà burocratiche ed economiche, continua a praticare lo stile dell’accoglienza. 

«E’ un luogo di passaggio, una struttura fragile, precaria, ma è la casa in cui ci accogliamo a vicenda e ci mettiamo tutti in gioco», racconta Dorotea Passantino, responsabile dell’Ufficio di mediazione penale del comune di Palermo.

Con il marito Tony Scardamaglia, infermiere, e con i figli Rachele e Giovanni, ha fatto «una scelta di vita missionaria: un’esperienza di fede che ci aiuta a metterci in ascolto e a contrastare i muri».

Loro sono una famiglia di laici missionari comboniani e con Maria Montana, biologa presso il Policlinico, si autogestiscono vivendo dei loro stipendi in una struttura dei Comboniani, dove «ognuno ha i suoi spazi, ma le chiavi restano appese alle porte».

In un clima di fiducia e reciprocità, accolgono i neo maggiorenni che non avrebbero dove stare e li aiutano ad inserirsi, accompagnandoli in un percorso di autonomia e autodeterminazione, come nel carisma di Comboni. 

(Foto archivio Missio, copyright Brigante)