I corpi delle donne sono ‘armi di guerra’ e l’Onu denuncia

Ma la Giustizia non arriva a condannare le violenze. Un ginecologo congolese da oltre 20 anni assiste le vittime di stupro di massa e le racconta.

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A giugno del 2019 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riconosceva che lo stupro e la violenza di genere, perpetrati durante i conflitti, sono una vera e propria “arma di guerra”.

Grazie alla Risoluzione numero 2467, osteggiata in tutti i modi dagli Stati Uniti che hanno posto il veto, si è riconosciuto che la violenza sessuale è usata «come tattica di guerra per umiliare, dominare, instillare paura» e alla fine distruggere corpi e psiche.

Si tratta di un enorme progresso del Diritto, se consideriamo che né il tribunale di Tokyo né quello di Norimberga avevano riconosciuto come tale il reato di violenza sessuale.

Ma è proprio nell’ultimo scorcio di secolo che la violenza sistematica e premeditata contro le donne durante i conflitti è diventata un’arma bellica mirata e circoscritta.

È come se la degenerazione delle guerre che sempre più vedono come vittime i civili, avesse inserito lo stupro tra le possibili armi a disposizione degli eserciti: non si tratta più solo dell’eccezione ma della norma, in barba a tutte le Convenzioni di Ginevra e alle risoluzioni Onu.

Fare violenza su una donna per i soldati degli eserciti ‘regolari’ e per le moltissime milizie armate ribelli (tutte le guerre a bassa intensità africane, e i conflitti in Medio Oriente), è diventato come usare mine anti-uomo, bombe a grappolo e rockets.

Una tipologia di arma per di più gratuita ed efficace al 100%, che agisce sia nel breve che nel lungo periodo, provocando ripercussioni enormi sulla psiche di interi popoli.

Umilia sia le donne che gli uomini, annienta le generazioni future poiché provoca nascite non desiderate e di fatto devasta le persone fino a sconvolgerne a lungo l’esistenza.

Le ferite delle donne

Uno degli uomini che più hanno denunciato questa forma di violenza è il ginecologo congolese Denis Mukwege, che da oltre 20 anni assiste le vittime di stupro di massa nella Repubblica Democratica del Congo.

Il suo impegno di medico e attivista gli è valso il Nobel per la pace nel 2018 e il Premio Sackarov.

Ma il suo proteggere le vittime (una forma di attivismo politico oltre che pratica medica), gli è costato molto in termini di sicurezza personale. Il dottor Mukwege è minacciato di morte per aver chiesto giustizia nei confronti dei crimini perpetrati in Congo, ed è privo di protezione internazionale.

Denis Mukwege ha fondato nel 1998 il Panzi Hospital di cui è diventato il massimo esperto mondiale nella cura di danni fisici interni causati dagli stupri.

Ma se il dottor Mukwege può avere la tecnica per curare i danni fisici provocati dalle violenze sessuali di certo non ha lo strumento per alleviare le ferite psichiche di queste persone. Né tantomeno per trasformare questo reato contro l’umanità in un crimine che necessita di pene severissime.

«Abbiamo provato di tutto: abbiamo provato con le armi, abbiamo provato con i negoziati, abbiamo provato con gli accordi di pace, ma nulla ha funzionato – ha dichiarato il medico in un’intervista – Credo che l’unico elemento che non è stato ancora utilizzato sia la giustizia». E qui tutto perde consistenza.

Le lacune della giustizia internazionale

Sul versante della realizzazione della giustizia internazionale e della effettiva condanna penale il discorso contro lo stupro di guerra si inabissa. Servono spesso anni ed anni per arrivare alla condanna definitiva dei leader politici o dei soldati che si sono macchiati di questo crimine orrendo.

Ci sono voluti 14 anni di attesa, ad esempio, perché il tribunale de l’Aja riuscisse a condannare per la prima volta un alto funzionario (nel caso specifico in Centrafrica) per violenze sessuali, nonostante questo fosse un crimine contemplato dallo Statuto di Roma, il testo fondante della Corte.

Il punto è che non c’è verso di considerare queste donne come testimoni attendibili fin dall’inizio: sono ritenute poco credibili ed inoltre la raccolta delle prove contro singole personalità, leader e capi dell’esercito, è lacunosa e difficile.

Dal 2002 ad oggi, quando è stata istituita, la Corte ha preso in considerazione solo un terzo dei casi implicanti violenze sessuali. Inoltre due degli unici tre processi riguardanti queste imputazioni si sono conclusi con altrettante assoluzioni.

La Corte non ha emesso condanne nemmeno per la Repubblica Democratica del Congo, Paese universalmente noto per gli stupri commessi sui civili.

Perché? Le donne in alcuni Paesi in via di sviluppo godono di meno credibilità che in Occidente: subiscono una doppia violenza poichè le loro storie atroci e disarmanti vengono minimizzate e derise.

E così ogni dolore si amplifica: se il torto non viene riconosciuto e sanato; se la giustizia non interviene a compensare il danno subito, la ferita non si chiude ma ristagna. Trasmettendosi alle generazioni future di donne.