Guerre per l’acqua: “crociata” cinese sul Tibet ed altre contese idriche

Le risorse idriche del nostro pianeta sono scarse, limitate e sempre più contese. L'acqua sarà a breve più preziosa del petrolio.

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«Nella lista dei bacini d’acqua più contesi, il Brahamaputra è spesso messo in cima. Principalmente perché interessa due nemici acerrimi: India e Cina. Si tratta del quarto fiume al mondo per portata.

Nasce nel Tibet sud-occidentale, dal nobile Monte Kailash dove prende il nome di Yarlung Tsangpo e scorre verso Est, lungo il versante settentrionale dell’Himalaya, in territorio cinese».

È così che Emanuele Bompan – giornalista e geografo – e Marirosa Iannelli – presidente di Water Grabbing Observatory – parlano di una delle guerre per l’acqua meno note e forse più interessanti degli ultimi anni.

L’acqua di questo fiume conteso, lungo 2.900 chilometri e con una portata di 19.300 metri cubi, non basta di per sè a soddisfare i nuovi bisogni di Cina e India insieme, alle quali si aggiunge anche il Bangladesh.

«La costruzione di alcune dighe da parte della Cina ha determinato improvvise magre e inspiegabili peggioramenti dei parametri qualitativi dell’acqua».

Ed è così che la prepotenza del Dragone trova l’opposizione del subcontinente indiano sempre più popoloso, affamato e in necessità di irrigare le sue terre.

«Le water wars sono una componente chiave di questa ‘crociata’ cinese, poichè consentono alla Cina di controllare il Tibet sul quale concentra tutto il suo potere», attraverso una delle maggiori risorse naturali: l’acqua appunto.

Così spiega con precisione anche il geo-stratega Brahma Chellaney per Times of India. 

Questa ed altre storie sono emblematiche non solo di un mondo niente affatto pacificato, ma di una geografia che cambia. E si evolve in senso peggiorativo nella dinamica dei conflitti.

L’ultimo importante lavoro di Bompan e Iannelli – Water Grabbing, le guerre nascoste per l’acqua nel XXI secolo, (Emi) – scandaglia proprio i motivi del forte attrito tra Stati, spesso deflagrante in conflitti aperti, ma altrettanto spesso fonte di tensioni striscianti e di conflitti diplomatici che durano anni, con al centro la contesa sui maggiori corsi d’acqua.

Fiumi, laghi, mari, bacini idrici e dighe sono soggetto di dispute internazionali senza soluzione: l’acqua è davvero il nuovo oro nero del XXI secolo.

Lo United Nations world water development report 2019: leaving no one behind (“Nessuno sia lasciato indietro”) spiega che in un contesto segnato da un aumento della domanda (più 1% all’anno dagli anni Ottanta) la conflittualità peggiora.

Basti pensare che tra il 2000 e il 2009 sono state censite 94 contese.

Tra il 2010 e il 2018 si è arrivati a 263.

«Con l’aumentare della popolazione nelle zone più impoverite del pianeta, e l’inasprirsi dei cambiamenti climatici, in futuro sempre più conflitti saranno causati per guadagnare l’accesso all’acqua».

Si tratta infatti di una risorsa sempre più cruciale e preziosa, ma drammaticamente scarsa.

Inoltre, la scarsità d’acqua e la sua contesa la dicono lunga pure sugli effetti dei cambiamenti climatici: è attorno all’abbondanza devastante delle piogge e alla disarmante siccità; attorno allo scioglimento dei ghiacciai e alla penuria di precipitazioni durante la stagione secca, che si gioca il futuro del pianeta.

Di possibili guerre per l’acqua si parla da oltre 20 anni: ma adesso i tempi sembrano aimè maturi per scatenare davvero micro conflitti per la gestione delle risorse idriche (già in corso in molte zone calde), che andranno a sostituire quelli per il petrolio, risorsa oramai in discesa verticale.

Estrarre oro nero sta diventando infatti antieconomico: il mercato mondiale si orienta sempre più verso fonti energetiche “pulite”: gas, metano e petrolio resisteranno finché i costi di estrazione non supereranno i profitti. Ma il trend parla di altro.

Parla di idrogeno, di energie cosiddette “verdi”, di gestione delle reti idriche, irrigazione e acqua necessaria perchè scarsa.

«L’acqua è un elemento globale che non conosce i confini delle nazioni», scrivono Bompan e Iannelli.

La nota dolente in effetti è proprio questa: i confini politici e artificiosi degli Stati non corrispondono molto spesso alle regioni geografiche.

E dunque è molto frequente per Paesi confinanti dover “condividere” miniere, montagne, cave, gas, bacini idrici.

Ma per condividere una risorsa (per definizione scarsa), bisogna possedere tutti la medesima forza politica ed economica, altrimenti uno dei contendenti prevarrà sull’altro.

Il fiume Nilo ad esempio è condiviso da 11 Stati, il Congo da nove. Nel continente americano il Rio delle Amazzoni bagna nove nazioni.

In Asia il Mekong ne raggiunge sei e in Europa il Danubio fornisce acqua a 17 Stati.

C’è poi il caso a parte del Medio Oriente, con il fiume Giordano la cui acqua irriga Palestina, Israele e Giordania ma la deviazione delle acque irrigue da parte di Israele è fonte di ulteriore conflittualità tra arabi ed israeliani.

Il caso più pericoloso di questi ultimi anni è quello della diga sul Nilo, la famosa Grand Ethiopian Renaissance Dam (Gerd), contesa (o sarebbe meglio dire condivisa) da ben tre Stati: Egitto, Etiopia e Sudan.

Si tratta di una “grandissima” (dal punto di vista fisico e strutturale) opera infrastrutturale la cui prima pietra è stata posata nel 2011.

Da lì in poi, battute d’arresto, tensioni diplomatiche con l’Egitto, trattative, avanzamenti.

Il grande paradosso di questi contesti africani è che un Paese fragile come l’Etiopia, ad esempio, ha potenzialmente le risorse per produrre cereali di qualità e sfamare l’intera popolazione, ma non può farlo e la fame dilaga; si vive grazie ai sussidi del Programma Alimentare Mondiale.

Perchè?

«La fame è una creazione politica e dobbiamo usare mezzi politici per porvi rimedio», disse dieci anni fa James Morris, direttore esecutivo del Programma Alimentare Mondiale.

Perché se è vero che siccità, cambiamenti climatici e scarsità di mezzi provocano scarsi raccolti, è anche vero che guerre civili, conflitti etnici e mancanza di politiche adeguate fanno il resto.

Lo scrisse molto bene alcuni anni fa Andrea Cairola in un reportage sulla “carestia di Stato” in Etiopia.

«Nel granaio dell’Etiopia la maggioranza dei fondi erano stati dati a piccoli imprenditori agricoli che avevano cominciato a investire per aumentare le rese.

Poi il vento politico è girato e gli appezzamenti sono stati tolti dagli affidatari originari e ridistribuiti a nuovi beneficiari più compiacenti con il potere».

 (Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre-ottobre 2021 di Popoli e Missione).