Costa d’Avorio, cacao sempre più amaro

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Nonostante le tante iniziative messe in campo in questi anni per contrastare il fenomeno, lo sfruttamento dei bambini nelle piantagioni africane di cacao è ancora una realtà consistente. Le multinazionali del cioccolato potrebbero fare la differenza, ma preferiscono guardare al profitto.

Da soli Ghana e Costa d’Avorio rappresentano ben il 65% del mercato globale di cacao: sono i primi due produttori al mondo di preziose fave della pianta Theobroma, dalla quale si ricava la polvere di cacao. Seguiti da Ecuador (6,5%) e Camerun (5.8%). Eppure non ne godono alcun beneficio.

In Costa d’Avorio le piantagioni di cacao sono talmente estese e redditizie (per il resto del mondo) da coprire il 45,9% del fabbisogno mondiale, con grande gioia della Mondelz e della Hershey (multinazionali statunitensi del cioccolato).

Nonché della Nestlè e dei vari marchi di fabbrica che realizzano le golose tavolette di cioccolata vendute in Europa. Ai produttori locali però non arriva quasi nulla del profitto complessivo mondiale. Perché?

Nonostante attingano a piene mani alla “fonte” africana del cacao, né la Mondelz né la Hershey, per esempio, sono disposte a fare sforzi per incrementare quella quota di redditività riservata ai produttori.

In parte per via del crollo dei prezzi delle materie prime, come confermano i listini, in parte perché non c’è forma di tutela per i Paesi poveri, e a rimetterci sono sempre gli africani. Tra loro, i più poveri tra i poveri, ossia i bambini.

Secondo una ricerca recente pubblicata da Fairtrade, marchio del commercio equo e solidale, quando i prezzi del cacao erano alti sul mercato delle commodities (ossia negli anni Settanta), la quota di guadagno sulla barretta di cioccolato (intesa come prodotto finito), riservata ai coltivatori di cacao, era perfino del 50%.

La percentuale è scesa drasticamente nel corso del decennio successivo, fino a raggiungere il 16% e poi ancora fino ad oggi. In questi ultimi due anni ai coltivatori africani spetta il 6% del guadagno totale.

Il che si ripercuote sulla manovalanza: i raccoglitori delle fave di cacao guadagnano 0,78 dollari al giorno. Quando va bene. Se si tratta di bambini il salario scende.

Nonostante le iniziative statali e governative africane messe in campo in questi anni, su pressione delle agenzie Onu, sia in Costa d’Avorio che in Ghana, per “proteggere” un minimo i coltivatori locali, le grandi multinazionali del cioccolato non hanno alcuna intenzione di far crescere la quota riservata ai guadagni di chi coltiva la terra.

Eppure in questo ultimo decennio la Costa d’Avorio è stata al centro delle cronache dello sfruttamento minorile. Ripetutamente si è indagato all’interno di quel buco nero che è il mondo del lavoro nelle piantagioni.

Dossier, studi dettagliati ed anche sentenze di tribunali (nonché inchieste giornalistiche che sul momento fanno scandalo), hanno stigmatizzato sia i comportamenti delle multinazionali che dei “padroni” delle piantagioni locali, siano essi stranieri o africani.

Di recente ventidue persone sono state condannate in Costa d’Avorio per traffico di bambini nelle piantagioni di cacao, secondo quanto riferito da un funzionario di polizia all’agenzia stampa Afp.

Cinque persone sono state condannate a 20 anni di prigione e 17 a cinque anni di carcere dal tribunale di Soubré, nella Costa d’Avorio occidentale. Ma di bambini-schiavi del cacao si parla più o meno dagli inizi degli anni Duemila.

Diversi studi hanno appurato che i bambini nelle piantagioni sono esposti al glifosato, agli insetti e perfino ai morsi di serpente; hanno problemi alla schiena e il loro corpo risente delle innumerevoli ore che passano ricurvi sulla terra.

Il numero dei minori impiegati nelle piantagioni sfiora il milione. Sono bambini che vivono in comunità che hanno come unica risorsa il cacao: le alternative di vita sono davvero pochissime per loro. Ma sono anche bambini trasferiti a forza da altre regioni.

Questa industria genera 100 miliardi di dollari l’anno ma il paradosso è che anche a livello internazionale non si è in grado di lottare in maniera efficace contro lo sfruttamento. Perché nessuno è disposto a perdere un pezzetto del proprio guadagno.

E né il green washing né palliativi relativi al child labour, al lavoro minorile, (progetti di cooperazione che prevedono dopo-scuola o piccoli laboratori), bastano a migliorare le condizioni di vita di chi lavora nella filiera africana del cacao.

Anzi: quando le multinazionali lanciano delle campagne contro lo sfruttamento del lavoro si tratta spesso di iniziative blande che ne riscattano il nome e ripuliscono momentaneamente l’immagine aziendale.

Alcuni anni fa ad esempio, la Barry Callebaut, grande azienda del cioccolato con sede a Zurigo, ha lanciato l’iniziativaForever Chocolate”.

L’intento del progetto era strappare 500mila coltivatori dalla povertà, azzerare il lavoro minorile, raggiungere un bilancio positivo in termini di emissioni di carbonio. Ma il progetto non ha dato grandi frutti. Perché le alternative erano inesistenti. E dopo poco i bambini sono tornati a raccogliere fave.

Yann Wyss, direttore senior dell’area Diritti Umani della Nestlé, ha spiegato alla testata svizzera Swissinfo.ch che è importante sostenere le comunità, ma non bisogna dimenticare la «responsabilità delle aziende» lungo la catena di produzione. La Nestlè peraltro è la prima a dover fare “attenzione”. E dovrebbe essere messa sotto una lente. 

«Queste imprese dimenticano di avere un importante influsso sulla produzione lungo l’intera filiera», dice Wyss. Il monito in realtà, dovrebbe rivolgerlo ai suoi stessi manager.

Costruire pozzi, scuole e perfino elaborare programmi di lotta ai cambiamenti climatici, a fronte di un business che prosegue identico a prima e non prevede inversioni di rotta dei meccanismi di Mercato, non serve all’Africa.

La giusta retribuzione a monte, salari più equi, un’attenzione totale ai diritti umani e al lavoro di chi coltiva la terra e ne raccoglie i frutti, sono alla base di qualsiasi business del cioccolato.

In Costa d’Avorio oltre tre milioni di bambini vivono in comunità che basano il loro sostentamento sulla produzione di fave di cacao. Cosa fanno i governi per loro? Ufficialmente quello della Costa D’Avorio ha adottato il National Action Plan for the Fight Against Trafficking, Exploitation, and Child Labor.

Ossia: il Piano nazionale per combattere il traffico, lo sfruttamento e il lavoro minorile. Ma nel concreto questa battaglia è quasi impossibile. Il fenomeno dei bimbi trafficati e condotti a lavorare nelle piantagioni di cacao (e caffè) è una triste realtà, stesso procedimento dei raccoglitori di oro e coltan in Congo.

Secondo l’International Cocoa Initiative (Ici), fondazione svizzera creata dall’industria del cioccolato, circa 1,2 milioni di bambini erano impegnati nella coltivazione del cacao tra 2013 e 2014.

La rete del traffico coinvolge ragazzi non solo dal Burkina Faso, ma anche dal Mali, dal Niger, dalla Nigeria, dal Togo e dal Benin.

A fare la differenza paradossalmente può essere proprio il mercato: sono le aziende multinazionali che si impongono e che impongono regole ferree a poter rivoluzionare le condizioni di vita.

Ossia: controllo della filiera e di ogni piantagione; rifiuto del lavoro minorile, pretesa di salari adeguati, con penali per chi non si adegua.

Ma a fare la differenza è anche il consumatore: leggere bene le etichette e pretendere che vi siano certificazioni di eticità sul cacao, come quelle rilasciate da Fairtrade, è una necessità. E alla lunga tutto questo può incidere sulla situazione del mercato ab origine.

(foto di apertura, ISSOUF SANOGO / AFP)