Braccianti, non schiavi! Da Cosenza al ghetto di San Ferdinando

Viaggio in Calabria sotto scacco del caporalato, dove le associazioni e la Chiesa cercano vie di uscita per i braccianti

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Dalle serre di Roggiano Gravina, dove lavorano i braccianti di NoCap, usciti dalla logica schiavistica del caporalato, alla tendopoli infernale di San Ferdinando, a Rosarno. Abbiamo viaggiato nelle campagne calabre, da Cosenza a Tropea, per raccontare due mondi. Questo il video-reportage

 

«Sono stato venditore ambulante a Genova e poi bracciante a Trento dove raccoglievo le mele.

Da lì a Campobello di Trapani, a raccogliere le olive e infine a Rosarno per le arance».

Sow Dou Dou, senegalese ultracinquantenne, in Italia dal 1992, racconta la sua storia seduto alla balaustra del casolare di campagna dove vive da alcuni mesi.

In mezzo al verde intenso e frastagliato di Roggiano di Gravina, in provincia di Cosenza, il riposo profuma di caminetto e sigarette.

«Nelle serre di Roggiano iniziamo a lavorare alle sette del mattino e finiamo alle tre e mezza del pomeriggio; non è un lavoro difficile, ma è pesante».

Quando incontra Yvan Sagnet, attivista camerunense, laureato in Ingegneria e ideatore di NoCap, la vita di Dou Dou e quella dei suoi compagni cambia.

«È una vita miglior, adesso, pagano bene anche se i soldi arrivano sempre in ritardo», racconta Ali Ceesay che viene dal Gambia.

La casa è spaziosa e pulita e Dou Dou la condivide con cinque ragazzi africani che lavorano con lui nell’azienda agricola del circuito NoCap, fuori dalle logiche del caporalato.

«Ho moglie e figli in Gambia, e metto quasi tutto da parte per loro», spiega ancora Ali.

«I braccianti vengono tutelati in ogni modo – afferma Maria Teresa Sita, volontaria di NoCap – per qualsiasi cosa possono rivolgersi alla nostra associazione che trova loro abitazioni decenti e spaziose.

NoCap paga il primo mese di affitto finchè non iniziano a lavorare. Portiamo in casa stoviglie, materassi, coperte affinchè non gli manchi nulla».

E in effetti è così che dovrebbe essere, sempre. Perché lavorare nei campi e provenire dalla miseria non è reato da scontare.

La Chiesa calabrese, di cui monsignor Francesco Savino, vescovo di Cassano allo Jonio è espressione, lo sa molto bene.

«La tragedia di Cutro ha cambiato qualcosa e la narrazione dell’immigrazione come un pericolo non è più sostenibile – ci dice -. Quel naufragio ha scosso le coscienze di tutti. Vedere quelle scene, sentire quei pianti e quella disperazione così vicina, così profonda, ci ha aperto gli occhi».

Il nostro viaggio inizia da qui: dal riscatto dei braccianti e dalla loro rinascita. Termina poi nella tendopoli di San Ferdinando, dove 450 persone condannate all’eterno presente, sono ammassate da 12 anni in 76 tende sorvegliate a vista. Vediamo la bellezza e poi l’inferno.

È nei non luoghi che l’umanità si perde.

Per entrare nella tendopoli abbiamo bisogno di un permesso speciale della polizia che presidia l’area.

Oramai i due poliziotti conoscono bene ogni abitante del ghetto e le loro tristi storie.

Il caldo è soffocante persino ad aprile; un forte odore di escrementi e cibo avariato ci attende all’ingresso.

Prince ci fa entrare nella sua tenda: non ha voglia di raccontare quello che il poliziotto continua a domandargli incalzante. Di quando i suoi compagni lo hanno aggredito e picchiato di notte.

Dentro ci dormono in sei: i materassi sono sporchi, tagliati, pieni di insetti, cibo in scatola ad ogni angolo.

Dei piccoli cucinini a gas sono vicini ai materassi.

A San Ferdinando si ricreano meccanismi di sopruso interno da parte dei più ‘anziani’, gerarchie e violenza.

Gli uomini perdono dignità, ragione e speranza.

«Gli anni passano e loro non se ne accorgono più. Tutto quello che mettono da parte lo mandano a casa, ma si dimenticano di vivere», racconta il poliziotto.

Il ghetto è come una delle “istituzioni totali” descritte dal sociologo Goffman: come i manicomi, le carceri, i campi di sterminio, gli ospedali protetti.

«Si sentono al sicuro qui dentro», continua a ripetere il poliziotto. Ma è solo paura della libertà…

Questa massa di persone-fantasma rischia di allargarsi con le nuove normative in tema di migrazioni. «Il cosiddetto decreto Cutro ci preoccupa tanto, spiega Pino Fabiano: c’è il rischio di intaccare ulteriormente quelle poche garanzie legate alle vittime di tratta.

E chi arriva in Italia può scivolare più facilmente in una situazione di irregolarità.

Diventa più difficile la conversione del permesso di soggiorno, più facile entrare nelle maglie del caporalato».

Detto in altre parole: con il decreto Cutro i ghetti come San Ferdinando possono moltiplicarsi.

Eppure, «spesso sono proprio gli stranieri a reggere le sorti di interi settori produttivi del nostro Paese ma molti di loro non hanno tutele – ci dice ancora don Francesco Savino Non è solo una questione di salario basso ma di assenza totale di diritti. Diventano persone vulnerabili ed invisibili».

(Per leggere l’intero reportage, pubblicato sulla rivista Popoli e Missione: 4_7_primopiano__giu23  o richiedi una copia del numero di giugno 2023). 

Reportage: Braccianti, non Sciavi!4_7_primopiano__giu23