Tigrai allo stremo: chi sopravvive alla guerra muore di fame

Dopo oltre due mesi di guerra civile, l'emergenza umanitaria è senza precedenti. Appello di Ong e vescovi, divergenti opinioni sul premier Abiy

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La popolazione del Tigrai – regione autonoma dell’Etiopia settentrionale target della guerra civile scoppiata oltre due mesi fa – è sempre più affamata.

Chi è sopravvissuto alle bombe, muore di ora in ora in attesa che gli aiuti d’emergenza siano distribuiti a tutta la popolazione. A soffrire per gli stenti sono anche i rifugiati fuggiti nella vicina Eritrea. La guerra non lascia scampo a nessuno.

I sopravvissuti, soprattutto i bambini, stanno morendo di dissenteria e disidratazione, costretti a bere l’acqua sporca dei fiumi; i raccolti sono in fiamme e oltre 4,5 milioni di persone, praticamente l’intera popolazione tigrina, necessita di cibo d’emergenza.

Senza urgenti aiuti umanitari «centinaia di migliaia di persone nei prossimi giorni moriranno di fame».

L’allarme arriva dai soccorritori ed operatori umanitari entrati nella regione settentrionale dell’Etiopia, (e al confine con l’Eritrea), che è ancora ostaggio dei contendenti: esercito regolare etiope da una parte, e combattenti tigrini del Tplf dall’altra.

«C’è bisogno urgente – e non so più quali altre parole usare in inglese –  di fornire subito una risposta umanitaria perchè la popolazione sta morendo di giorno in giorno, mentre noi parliamo», ha dichiarato all’Associated Press, Mari Carmen Vinoles, a capo dell’unità di emergenza di Medici senza Frontiere.

Appello dei vescovi 

«È una situazione umanitaria terribile e una costante orami, afferma anche monsignor Tesfaselassie Medhin, vescovo dell’Eparchia di Adigrat, in una lettera riportata dall’agenzia cattolica Aci Africa – sentire di gente che muore per la guerra, per la fame, per la mancanza di medicinali, mentre migliaia di donne e bambini sono costretti a fuggire dalle loro case in cerca di sicurezza e salvezza».

Le notizie che giungono dai nostri missionari che vivono in altre regioni del Paese e nella capitale Addis Abeba, sono di preoccupazione per il popolo del Tigrai, ma non di allarme rispetto ad una eventuale estensione del conflitto.

Il resto dell’Etiopia sembra al riparo dalla guerra; ma laddove non è la guerra a decimare vite umane, interviene il Covid a minare la sicurezza di esistenze così precarie.

Torna la minaccia Covid

«Spero che voi stiate tutti bene. Noi qui abbiamo qualche caso di Covid tra i ragazzi che vado a prendere col pulmino ogni mattina dalla strada – ci scrive il salesiano don Angelo Regazzo, in un messaggio giunto in redazione da Addis Abeba – Avendo già preso il Covid io ho sviluppato una “scorza” più resistente.

Prendo le mie precauzioni ma ho deciso che è meglio condurre una vita il più normale possibile e chi risulta positivo si isola per una quindicina di giorni e poi riprende le sue attività».

Don Angelo prosegue: «sei dei nostri ragazzi, un maestro, un’operatrice sociale e una donna di servizio sono risultati positivi al Covid. Ogni mattina guido il pulmino di 40 posti con  25 ragazzi a bordo che prendo direttamente dalla strada e tra di loro c’è sempre qualche asintomatico».

Falchi e colombe di Ahmed

Questa guerra inaspettata nel cuore dell’Etiopia (il primo intervento armato governativo contro il Tplf, il partito al potere nel Tigrai, è iniziato il 4 novembre scorso) sta dividendo l’opinione pubblica internazionale.

Non è facile interpretare motivazioni e responsabilità del premier – il premio Nobel per la Pace, Abiy Ahmed – in questa guerra che getta pesanti ombre sulla sua figura.

Ci sono due nette correnti di pensiero, fuori e dentro l’Etiopia: i pro-Abiy vedono in lui il premier “forte e determinato” (ma anche moderato) che ha sostenuto pacificamente la minaccia del Tplf finchè ha potuto. E poi ha risposto alle violenze del Tplf – partito che da quando lui si è insediato a capo del governo non ha dato tregua – contrario ad una politica centrata sul superamento del federalismo etnico.

Sottraendo potere al Tplf per centralizzarlo, Abiy Ahmed avrebbe suo malgrado scatenato la reazione violenta del partito etnico tigrino, che aveva peraltro commesso molte violenze su altri gruppi etnici, sostengono i pro-Abiy.

Una seconda interpretazione, completamente divergente, vede in Abiy Ahmed un premier antidemocratico, irrispettoso dell’indipendenza tigrina, tanto da condurre una guerra contro il Tigrai con il solo scopo di accelerare la svolta del Paese verso un forte potere centrale.

«Abiy ha rotto la coalizione, mettendo nell’angolo il Tplf, partito egemone: un partito che negli ultimi 25 anni aveva governato l’Etiopia – ci spiega al telefono Pino Schirripa, docente di Storia e Antropologia all’Università La Sapienza – Presentare Ahmed come baluardo della democrazia a mio avviso è stato, ed è, un grosso errore: lui ha tentato una presa di potere autoritaria. Si può dire che in Etiopia c’è sempre stata una antinomia tra potere centrale e poteri locali. Ma non si tratta di contrapposizioni etniche, quanto piuttosto di lotte di potere tra principi».

Si dimentica poi il fatto «che il Tplf era di ispirazione maoista: ogni componente nazionale in Etiopia ha il suo esercito di liberazione, al nord c’è l’Oromo Liberation Front, ad esempio – spiega ancora Schirripa – Tutti insieme hanno creato una federazione di partiti, in antitesi al centralismo precedente. Noi tendiamo a pensare le etnie come un dato di fatto, ma sono costruzioni storiche, divisioni che vengono messe in campo per diverse ragioni, primariamente politiche».

Ma al di là delle possibili interpretazioni sulla figura di Abiy e sulle sue responsabilità in questa guerra (che solo una lucida analisi politica a freddo potrà accertare), quel che resta è una tragedia umanitaria senza fine, che ha per vittime i civili.

Intervenire per aprire tutti i varchi e consentire l’ingresso massivo degli aiuti, nonché la creazione di corridoi umanitari, è una priorità assoluta non più procrastinabile.