Somalia, il Gattopardo del Corno d’Africa

Intervista a Nicola Pedde: "solo più investimenti nelle attività produttive possono sottrarre uomini ad Al Shabab".

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Si parla con sempre più insistenza di rischio “afganizzazione” in Somalia. La presenza in espansione di Al Shabab potrebbe replicare in peggio quella dei Talebani. Lo studioso Nicola Pedde ci spiega però che questo è uno scenario poco credibile.  

L’argomento “topico” della trasformazione del gruppo terroristico di Al Shabab da Stato parallelo a potere politico, appare inverosimile nel Paese del Corno d’Africa sempre più sul punto di scoppiare.

«Il pericolo reale in Somalia è semmai il mantenimento di questo incerto status quo fatto di insicurezza, povertà, e militarizzazione», che distrugge ogni sogno di ricostruzione.

A dirlo in questa intervista è Nicola Pedde, direttore dell’Institute for Global Studies, specializzato sui temi della politica, sicurezza ed economia in Africa e Medio Oriente.

Paragonare la Somalia che verrà (dopo la ritirata del contingente Amisom delle Nazioni Unite), all’attuale Afghanistan è azzardato secondo lo studioso perché in realtà «si tratta di situazioni molto lontane».

E soprattutto perché le potenze straniere non hanno alcuna intenzione di lasciare la Somalia. Attenzione però: parliamo di destini ugualmente tragici per le rispettive popolazioni locali.

Gli interessi internazionali in Somalia «sono fin troppo preminenti» per lasciare che essa venga fagocitata del tutto dal terrorismo di matrice jihadista. Questo però non garantisce la sicurezza ai civili. Tutt’altro.

Maledizione dell’economia di guerra

«Sicuramente la Somalia non ha perso rilevanza per gli americani e in generale per la comunità internazionale tutta – è la premessa di Nicola Pedde -: la stessa missione Amisom, in scadenza, sarà prolungata e trasformata in una nuova impresa.

C’è una filiera dell’“economia della sicurezza” (ossia bellica, ndr.) che alimenta una voce troppo importante nel bilancio distorto del Paese» per poter essere accantonata.

Il Paese si regge su di «un equilibrio precario funzionale però ai centri di potere».

La presenza di gruppi armati destabilizzanti (e pericolosi per chi vive nel Paese), come gli Al Shabab costituisce una matrice esplosiva, ma anche funzionale a chi è preposto a combatterli.

Più che di jihad sarebbe meglio parlare di criminalità organizzata.

«Il profilo ideologico dei militanti di Al Shabab – spiega ancora il docente – è molto basso come dappertutto in Africa.

Dove trovano uno stipendio i futuri militanti vanno: gli affiliati non sono jihadisti di convinzione. La gran parte di essi è composta da disperati che vi aderiscono solo e solamente per soldi».

Al Shabab nasce nel 2004 come braccio armato delle Corti islamiche ed è stata concepita da una rete di veterani dell’Afghanistan in stretto contatto con Al-Qaeda.

«Il finanziatore era un facoltoso uomo di affari che gestiva il porto di Mogadiscio – spiega Pedde – Poi la sua struttura si è evoluta, e abbiamo assistito anche al suo declino a fasi alterne, e ad una rinascita continua del gruppo».

Ma cosa si nasconde dietro questa formazione terroristica che appare come un parastato, nell’odierna Somalia svilita e impoverita fino alla fame?

Al Shabab e il “finto Jihad”

Oggi si può affermare che la presenza di Al Shabab sia stata «alimentata in modo intenzionale da tutti coloro che l’hanno voluta mantenere in vita, come minaccia costante alla sicurezza dello Stato», afferma Pedde.

Le vulnerabilità sono diverse in Somalia: la povertà diffusa, la disoccupazione che porta masse di diseredati ad aderire alla “finta jihad”; l’assenza di uno Stato che controlli e contrasti contrabbando e illegalità (i miliziani vivono di tassazioni illecite, rapimenti e traffici); ma anche potenze straniere che foraggiano i miliziani di nuove armi.

Si è molto parlato di Iran e di Arabia Saudita a questo riguardo. Ma anche l’Eritrea è stata tra i finanziatori.

Uno dei fenomeni più inquietanti è la funzione mafiosa di Al Shabab che riesce ad estorcere una sorta di pizzo sia al business che ai comuni cittadini.

«I militanti racimolano almeno 15 milioni di dollari al mese e oltre la metà dell’ammontare viene dalla capitale Mogadishu», si legge in un pezzo della Bbc che cita l’Hiraal Institute.

Il guadagno complessivo di Al Shabab supera le entrate regolari del governo ufficiale che provengono dalle tasse.

 Soldi dalle zanne di elefante?

Un recente studio di Global Environmental Politics indaga sul collegamento esistente tra terroristi somali e commercio di avorio.

Fino a pochi anni fa si riteneva che ci fosse uno stretto legame tra bracconieri e Al Shabab, i quali avrebbero ricavato addirittura il 40% del loro sostentamento dal commercio di zanne di elefanti; in realtà questo link – dice lo studio e confermano diversi analisti – è più debole di quanto si pensi.

Al Shabab riceve da fuori e dall’interno, il grosso dei guadagni che le servono per acquistare armi. Ma chi può avere interesse a mantenerla in piedi?

«Man mano che viene finanziata dall’esterno, Al Shabab è in grado di arruolare nuove persone perché dispone di una capacità finanziaria che qualcuno le garantisce», spiega Nicola Pedde.

L’economia dell’Al Shabab in parte ruota sul saccheggio e la gestione illecita dei proventi provenienti dagli aiuti umanitari, in parte su una propria capacità esterna di ottenere fondi.

«È una criminalità molto ben organizzata che ha sia ramificazioni sul territorio che una capacità esterna di attrarre dollari».

Il costante mantenimento dello status quo fondato sull’instabilità è il terreno entro il quale si muove l’economia del Paese.

Eppure i terroristi «non possiedono né la capacità né la forza per governare».

Tornare a pesca e allevamento

L’antidoto alla deriva somala è secondo Pedde e secondo diversi esperti, l’investimento in attività economiche generatrici di reddito, piuttosto che il finanziamento della macchina della Sicurezza. E dunque della guerra.

«I somali hanno bisogno di posti di lavoro e di strutture economiche: la lotta ad Al Shabab la si fa sottraendo manodopera all’illecito. Non ci sono altri strumenti!», spiega.

Incrociando i dati delle diverse agenzie delle Nazioni Unite che operano nel Paese si evince che oltre il 50% della popolazione somala ossia circa 7,7 milioni di persone vivono nell’insicurezza alimentare.

Un eufemismo per dire che rischiano di morire di fame. Questo dato è in aumento: il numero è stato del 30% più alto nel 2021 rispetto all’anno precedente.

«Ciò di cui la Somalia ha davvero bisogno è un poderoso programma di sviluppo economico – spiega il docente -: servirebbe una pianificazione centralizzata dello sviluppo capace di riavviare il meccanismo dell’economia facendola uscire dalla dinamica degli aiuti umanitari».

Di fatto la Somalia non produce più nulla e la sua economia ancora ruota attorno agli aiuti e alla Cooperazione.

Mentre essa «dovrebbe tornare ad avere una sua struttura nello sviluppo dei settori tradizionali: pesca, agricoltura e allevamento.

Storicamente i tre pilastri dell’economia somala.

È su questo che andrebbe ristrutturata, ma ciò non avviene e il Paese continua a barcamenarsi tra terroristi, militari, governo inesistente, aiuti umanitari, in un limbo perpetuo.

Inoltre la Somalia è vittima di una serie di interessi incrociati sul fronte regionale: uno dei quali «tende a frazionare quanto più possibile la composizione dello Stato somalo tramite il rafforzamento del federalismo».

La maledizione somala sta in questa sua peculiare frammentazione, che la pone tra i Paesi gattopardeschi d’Africa e consente che venga tirata ora da una parte ora dall’altra: in questo cambio tutto cambia perché nulla cambi. E nel mezzo si muore.

(Questo articolo in Panorama, è stato pubblicato sul numero di marzo di Popoli e Missione).