«Lo schiavo oggi non ha le catene, però, per come viene considerato, trattato, definito e sfruttato, non può esercitare quei diritti che voi considerate normali.
Io non posso parlare, urlare andare dal medico, in ospedale, al pronto soccorso, oppure da un avvocato, dai carabinieri, da un magistrato e molte altre cose.
Da circa sei anni se entro in un negozio non torno a casa dai miei figli, non vado a fare una passeggiata, a una festa sikh o a un matrimonio.
Sono carne e ossa usate dal padrone per i suoi interessi».
Queste parole di Balbir Singh, bracciante indiano della provincia di Latina, uomo di grande forza interiore, si riferiscono alla infernale esperienza di schiavitù subita a partire dal 2010 e dalla quale è poi uscito grazie all’intervento di Marco Omizzolo e ad una rete di tutela legale.
Balbir è il protagonista del libro autobiografico ‘Il mio nome è Balbir’, pubblicato da People e scritto assieme ad Omizzolo.
Leggere questo racconto di schiavitù, presa di coscienza e rinascita, è fare esperienza diretta del livello di illegalità e disumanità agiti dai cosiddetti padroni dell’Agro Pontino. Ancora in gran parte impuniti e liberi di praticare la schiavitù sui migranti.
Ma questa storia è anche una incredibile immersione nell’universo fisico, mentale e spirituale di un uomo dall’enorme coraggio e dall’elevata forza morale.
Per ben sei anni, relegato in una roulotte, Balbir vive vessazioni, fame, privazione di libertà personale e duro lavoro di schiavo.
Grazie alla complicità di un sistema produttivo e sociale che ‘copre’ l’abuso.
La scrittura in prima persona, sotto forma di diario, la prosa semplice, diretta e interlocutoria con il lettore, rende il libro di Balbir Singh e Omizzolo, un raro esempio di immersione narrativa dalla quale non ci si separa con facilità.
Leggendo ‘Io Balbir’ diventiamo tutti Balbir Singh: sentiamo sulla nostra pelle il dolore delle botte, i morsi della fame e la violenza fisica compiuta dal padrone.
La grande capacità e, forse, l’intento pedagogico di Marco Omizzolo – sociologo, docente universitario, cronista, attivista, ricercatore e scrittore – è proprio quella di trasportare chi legge nella vita di qualcun altro, identificandosi col protagonista.
Ma Balbir Singh negli anni della tremenda schiavitù nella campagna laziale, non perde dignità, mantiene intatta la sua solida identità di uomo e combattente. Fino al felice epilogo conclusosi con un processo di condanna per lo schiavista.
Grazie a lui e alla sua prosa, chi legge esce dalla comoda posizione di osservatore (lettore) e inizia a risvegliare la sua coscienza.
Leggendo non possiamo più dire di non sapere o di non poter vedere.
«Noi schiavi abitiamo accanto a voi, a volte anche dentro le vostre case – scrive Balbir al capitolo ‘la schiavitù è sotto gli occhi di tutti, eppure ci chiamate invisibili’ – Ci potete incontrare per strada, in un cantiere, al supermercato, in fila all’Ufficio Immigrazione della Questura o mentre pedaliamo su una bicicletta scassata indossando uno zaino enorme per consegnare nelle vostre mani delle gustosissime pizze made in Italy cucinate da molti di noi, nelle vostre pizzerie».
L’intento sottile (riuscito) del libro è trasformare la coscienza del lettore: finalmente consapevole trasferirà questa suo risveglio nella vita quotidiana.
E se vorrà si farà alleato nella lotta per la libertà e l’abolizione reale della schiavitù dalle nostre case e dalle nostre campagne.