Parla la saveriana suor Teresina Caffi dal capoluogo del Sud Kivu

Pasqua a Bukavu sotto occupazione: “chiese piene, sfollati e tanta solidarietà”

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“Le chiese in questi giorni a Bukavu scoppiano di gente, sono strapiene, molto più che negli anni passati: alla via crucis non ci stavamo ieri per quanta gente ha partecipato!

Siamo sotto occupazione militare dell’M23 e non abbiamo altro ricorso e altra speranza che la fede”.

Dall’est della Repubblica Democratica del Congo, nel Sud Kivu occupato dalle milizie armate filo-ruandesi, suor Teresina Caffi, missionaria saveriana, ci racconta la passione di un intero popolo sotto assedio.

“Ben 154 giovani saranno battezzati nel giorno di Pasqua”, dice.

Le cerimonie del pomeriggio, durante la Settimana Santa “le hanno anticipate alle 14 perché alle 18 c’è il coprifuoco – spiega con noi al telefono – e tutti devono tornare a casa per quell’ora”.

La parrocchia della saveriana è quella di San Pietro Claver, nel quartiere di Nguba, alla periferia della città.

Si va in chiesa per ringraziare Dio di essere ancora vivi: “qui sparano da una parte e dall’altra la sera, cercano i wazalendo, le milizie partigiane che combattono l’M23, la gente si difende come può”.

L’arcivescovo di Bukavu, monsignor Francois Xavier Maroy Rusengo, ha fatto appello al mondo intero, il 15 aprile, con una lettera aperta protocollata.

“Come possiamo festeggiare la Pasqua sapendo che molti di noi sono sfollati interni nel loro stesso Paese, e che alcune scuole sono chiuse e i nostri villaggi vivono nell’insicurezza? – scrive padre Rusengo –

Le banche sono state chiuse e i salari non arrivano e il lavoro è fermo; le città sono insanguinate da banditi armati non indentificati e mancano medicinali negli ospedali”.

La speranza, dice il vescovo è che “i nostri dirigenti prendano decisioni utili per arrestare la guerra, anziché prolungare le discussioni che lasciano il popolo nell’agonia”.

La speranza non abbandona il Congo neanche in queste ore di passione: nei primi giorni dell’occupazione dell’M23 “nessuno sorrideva – ricorda suor Caffi – adesso hanno trovato la dignità di sorridere e continuare a lottare, nonostante tutto”.

La solidarietà della gente che accoglie è sorprendente e grande. Donano il sangue nell’ospedale della città, pur sapendo che potrebbe andare ai soldati feriti del Ruanda.

“Questa è un’occupazione militare ben dura”, ripete suor Caffi.

Quasi peggiore di quella di Goma, nel Nord Kivu, perché a Bukavu sembra che l’M23 non sia certo di poter restare, teme forse l’arrivo delle forze partigiane, quelle dei wazalendo che stanno resistendo dall’altra parte del fiume.

I miliziani sono arrivati solo fino a Kamanyola e la città di Katogota è diventato il fronte.

Dall’altra parte si schierano le forze popolari dei wazalendo: la città di Uvira resta ancora libera e il governatore di Bukavu è fuggito lì.

“Nel Sud kivu che comincia da Kamanyola, le milizie filoruandesi sono bloccate e non vanno avanti come avrebbero sperato”, dicono alcuni testimoni.

Diverse persone raccontano di intimidazioni, sparizioni e uccisioni in strada a Bukavu: “questo è il sistema – dicono – C’è un’ala politica e una militare ma quella che domina è quella militare”.

Il giornalista Amksi Msada, del quotidiano locale Deboutrdc.net è sparito da Bukavu lo scorso 15 aprile e di lui non si sa più nulla. 

Mentre il sacerdote Gilbert Ndungo è stato arrestato dall’M23 a Rutshuru lo scorso 16 aprile e portato “in una destinazione sconosciuta”, si apprende da un comunicato di Mukanda Mbusa.

Suor Teresina Caffi ci descrive una città violenta e militarizzata, dove la “gente è sfollata dai villaggi dell’entroterra prima che l’m23 entrasse in città e adesso si trova sotto occupazione.

Vorrebbero tornare a casa, nei loro villaggi, ma non hanno soldi per tornare indietro e sarebbe per loro troppo rischioso”.

Così restano, ma non ci sono campi per sfollati “e non sanno dove vivere – spiega la missionaria – Sono accolti dalle famiglie locali: nella piccola comunità di base che sta vicino al campo militare ci sono 334 presenze in più.

Sono rifugiati e vivono nelle case della povera gente che ha accettato di allargare la propria famiglia”.

Per loro si raccolgono abiti usati e cibo: la solidarietà della gente comune, essa stessa in difficoltà, è sorprendente a Bukavu.