P. Marano: da Bujumbura a Salerno, la missione continua

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«Quando i miei superiori, appena diventato prete, mi chiesero di andare in Burundi, la cosa per me fu quasi drammatica».

Era il 1981 e il Paese era in preda ai massacri e ad una feroce dittatura Tutsi.

«Tre settimane dopo il mio arrivo 29 confratelli vennero espulsi. L’alternativa per me già si poneva: tornare in Italia o passare in Congo? Ma fui tenace: mi dicevo: “sono venuto qui per stare in Burundi e in Burundi rimarrò”».

Inizia così il racconto di un missionario storico, padre Claudio Marano, saveriano di Melarolo, classe 1951, ideatore e artefice del Centro Kamenge di Bujumbura, diventato famoso per l’intuizione di mettere assieme giovani Hutu e Tutsi.

Oggi padre Marano è un testimone della missione in Italia e sta per iniziare una nuova avventura a Salerno. Lo abbiamo incontrato a Brescia, e gli abbiamo chiesto di ripercorrere con noi gli inizi della sua esperienza missionaria. 

Accettando una missione di quel tipo, in Africa, ricorda oggi lui, «sapevo benissimo che un giorno o l’altro sarebbe arrivata la polizia a mandarmi via». 

In quel periodo l’esercito era spietato con i fedeli di qualsiasi credo: «toglievano tutte le croci e i simboli religiosi – dice – Era una dittatura di militari. Per loro tutto ciò che era legato alle religioni, di qualsiasi tipo esse fossero, andava eliminata».

In effetti con il colpo di Stato del 1976 era salito al potere Jean-Baptiste Bagaza, di etnia tutsi, che rimase presidente fino 1987. Il suo era un governo clanico che perfezionò il cosiddetto “genocidio intellettuale” a danno degli studenti hutu.

«Allora mi sono messo il cuore in pace e mi sono detto ‘va bene’. Io sono friulano e al collo non ho mai la croce, ma al dito ho un anello che mi impegna davanti a Dio».

Claudio resiste altri cinque anni, poi la polizia espelle anche lui: «Ero indesiderato», ricorda. 

«Mi hanno mandato in periferia, a Bujumbura. Il vescovo mi diceva: ‘voglio un centro giovanile che non sia un oratorio all’italiana’».

Doveva invece essere un centro sociale d’eccellenza in modo che i giovani di entrambe le etnie e di tutte le religioni imparassero a vivere insieme e in pace.

«Quello era un vescovo illuminato!», ricorda Claudio. Con i confratelli si mette subito all’opera, chiede due anni di aspettativa, studia un piano per realizzare un progetto davvero ambizioso.

«Il vescovo voleva una palestra, un campo di tennis, un campo da calcio». In altre parole voleva un club. Ma non per i ricchi: per i più poveri tra i poveri.

Padre Claudio si prende tutto il tempo necessario. «quando diventi missionario ti mettono in testa molte cose – dice – : che non bisogna perdere tempo, che bisogna fare, fare e fare subito. Costruire scuole, cose utili, necessarie, impellenti. A noi invece era richiesto di realizzare un centro per attività ricreative».

Se vogliamo nulla di assolutamente vitale dal punto di vista delle emergenze materiali, ma qualcosa di necessario per la pace.

«Prendemmo un’area, costruimmo un luogo per abitarci noi e le suore. Per il resto: campi sportivi – tennis, pallacanestro, calcio e pallavolo. Sale, tante sale per far incontrare i giovani. Abbiamo trovato un geometra milanese che ci ha fatto il progetto e dei finanziamenti delle fondazioni».

Nel 1993 il centro Kamenge apre i battenti: fu subito chiaro che non era  dei bianchi, ma una cosa che apparteneva al Burundi.

«I padroni del centro erano i giovani stessi – ricorda il missionario – Per far sì che capissero davvero che gli apparteneva, abbiamo fatto delle iscrizioni con dei tesserini, tipo club». Il primo mese si erano già iscritti 2mila giovani.

«Erano ragazzi e ragazze dai 16 ai 30 anni: per loro, vissuti sempre nella violenza, trovare uno spazio nel quale esibirsi e sentirsi liberi era una specie di sogno».

E ancora, ricorda il missionario: «avevamo adottato un metodo di vita semplicissimo: il centro offriva l’ incontro per far nascere le amicizie. Facevamo una trentina di attività, tra cui Yoga.

Tutto quello che volevano, lì dentro era possibile farlo. Era importante riuscire a dare una motivazione di vita». Quasi subito però la guerriglia riprende. Un mese dopo l’apertura del Kamenge uccidono il presidente in carica, e la popolazione si divide.

«Metà stava con i ribelli, metà con i militari e si combattevano giorno e notte». Ma incredibilmente, il Kamenge va avanti. Non veniva toccato, forse per timore, forse per rispetto.

«Abbiamo cominciato con i soldi delle banche poi è arrivata la Cei con l’8permille. A quel punto è diventato un centro famoso». 

Nel 2002 Claudio Marano a Stoccolma, riceve il Premio Nobel alternativo. I giovani che escono dal centro cominciano ad avere successo. Si creano, amicizie, amori. Si vede fiorire la convivenza dal basso.

«Furono anni d’oro – dice adesso con nostalgia- e anni di grande impegno e spensieratezza».

«Molti di quei ragazzi che avevano potuto sperimentare la creatività senza paura, diventeranno artisti. Tra loro ci sono calciatori, tennisti, musicisti, cantanti. Hanno creato una propria vita. Alcuni sono andati in Canada, altri negli Usa, in Europa. Sono diventati personaggi».

Oggi alcuni musicisti famosi in Europa vengono da lì. E tra i calciatori africani noti, ci sono anche i ragazzi di Bujumbura. 

«Tutto questo è durato fino al 2011, quando i saveriani hanno ceduto il centro alla diocesi africana. I missionari hanno fatto un passo indietro – ricorda – Il vescovo locale ha preso in mano il centro solo nel 2015.

E ha messo lì dei sacerdoti, e mi ha chiesto di prepararli a diventare responsabili del centro». 

Poi, per vicende ancora misteriose, che il missionario ha cercato di ricostruire in questi due anni,  senza grandi risultati, a Claudio arriva una lettera in cui si diceva che entro due settimane avrebbe dovuto lasciare il centro, dopodiché sarebbero scattate le sanzioni canoniche.

Marano dall’Italia avrebbe seguito quelle attività, ma senza più tornarci. E così è stato.

«Da due anni sono lontano dall’Africa e dal Burundi – dice oggi con molta malinconia – Partito il 2 giugno del 2015, non ho più messo piede a Bujumbura».

Un esilio forzato, questo, che gli pesa molto. Ma Claudio non si arrende e presto verrà trasferito nelle periferie del nostro Paese, per provare a portare pace e spirito missionario anche qui.

«Come può esserci una messa dove non ci sono africani e asiatici? – si chiede – Vuole dire che noi siamo chiusi. Io dico alla gente: quando arriva mezzogiorno andate fuori il primo africano che trovate portatelo a casa vostra». 

«Sono arrivato in Italia il 3 giugno: da allora ho sempre avuto il Burundi nel cuore e nei vestiti. Tra le tante cose che faccio seguo il centro e do delle idee. Andrò a Salerno ad organizzare, spero, un altro centro giovanile».

E noi gli auguriamo di poter trasferire la sua grande energia in nuovi contesti di missione.