Ogni missionario è un patrimonio dell’umanità

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Le distanze da qui a New York ormai non ci sono più. Infatti incontro via web padre Peter Polo, mi metto in ascolto della sua vita interamente dedicata alla missione, che continua ancora in un modo particolare, accanto a confratelli che hanno dedicato la vocazione all’accoglienza e alla cura degli italiani emigrati all’estero. Sembrano tempi lontani e andati, invece sono temi che ci riguardano ancora oggi.

«Sono di razza contadina della Pedemontana veneta, sotto le pendici del Monte Grappa. Dopo l’ordinazione nel 1968, fui assegnato alla provincia San Carlo Borromeo che comprende la parte Est del Nord America e ora include anche le Isole Caraibiche, il Venezuela e la Colombia. Fui subito assegnato alla comunità di emigranti italiani e italoamericani di Utica, nella parte centrale dello Stato di New York. Insegnai latino e italiano nel Seminario minore della diocesi di Brooklyn per alcuni anni e, per poter insegnare validamente, dovetti fornirmi di un master che presi presso il Queens College. Fui poi assegnato alla parrocchia di Pompei nel Greenwich Village di Manhattan e poi a Boston nella parrocchia del Sacro Cuore nel North End e alla parrocchia dello Spirito Santo. Fui nominato parroco durante gli ultimi sei anni della mia permanenza e poi fui chiamato a New York per far parte della direzione provinciale come economo. Nel 1998 fui scelto come delegato al Capitolo generale a Roma e dallo stesso Capitolo fui eletto alla direzione generale della Congregazione. Servii a Roma come segretario generale dal 1998 al 2009, svolgendo anche altri incarichi come l’animazione dei laici Scalabriniani nel mondo».

Padre Peter con il vescovo ausiliare di Providence

Dentro a questo grande volume di attività e impegni succede qualcosa di inaspettato; eppure padre Polo ritrova forza e coraggio per ripartire. «Purtroppo in agosto 2007, fui colpito da un ictus. Dopo terapie e varie cure, fui inviato a Bassano del Grappa nel 2009 presso la Casa Scalabrini per riposo e terapia. E nel 2010 mi fu chiesto se fossi stato interessato a ritornare nella mia provincia di origine, cioè San Carlo Borromeo nel Nord America. Ora mi trovo a Scalabrini Villa, cioè una casa di cura per anziani come cappellano e animatore pastorale. Sono anche coinvolto con la comunità italiana che già conoscevo e con la vita della diocesi di Providence. Qui opero pastoralmente assieme a tre suore filippine e con volontari laici. La casa di cura raccoglie 120 residenti con un numero di circa 140 impiegati divisi in tre turni. Oltre a questi impegni, coordino il Centro Scalabrini-Dukcevich che offre assistenza a nuovi immigrati e alle loro famiglie con vari programmi e classi per favorire il loro inserimento. La maggioranza è di lingua ispanica e proveniente dal Centro e Sud America».

La giornata di padre Peter è intensa, soprattutto per il contatto quotidiano con i tanti missionari che hanno concluso il ministero attivo.

Comprendo che non c’è una “fine del servizio”, ma come vivere questo passaggio importante della propria vita e come far sì che il proprio ministero sia sempre fecondo?

«La casa di cura dove mi trovo ospita alcuni sacerdoti Scalabriniani di origine italiana e una piccola comunità di religiose anziane. L’ambiente permette ai missionari di “riconsegnare” le loro memorie ai più giovani. Io stesso molte volte mi sono seduto accanto a loro, sono testimone di quanto hanno imparato dalla vita e come ancora hanno desiderio di comunicare ad altri, come lezione importante di una vita lunga e a volte dura e provata dalle varie vicende dei vari Paesi in cui noi Scalabriniani operiamo a favore dei migranti».

Lei è in Nord America, una terra che ha una storia importante, fatta di gente magnifica ma anche di tante situazioni contraddittorie. Quanto è importante il rispetto delle culture e della storia?

«Sì, il Nord America è un pianeta diversissimo. Si va dal Canada (metà francofono e metà anglofono) agli Stati Uniti che sono la potenza predominante e infine al Messico che ha una storia affascinante. Ci vuole poco a rendersi conto che il Canada e gli Stati Uniti, anche se per diverse ragioni politiche e storiche, sono due ambienti sociali culturalmente interdipendenti. Il movimento fra Canada e Stati Uniti è relativamente facile. Un tempo non occorreva nemmeno il passaporto, bastava solo la patente. Ora il passaporto è richiesto. Basta camminare per ogni città di questa parte anglofona del Nord America per rendersi conto che gli individui che si incontrano hanno un andamento generalmente rilassato e allegro, dove il sorriso è naturale e dove gli incontri sono sempre cordiali ed espansivi. Si sentono varie lingue ma si passa da una all’altra senza difficoltà. Questa è la cultura dove entrano i nuovi migranti che vengono dal Centro e Sud America e anche alcuni nuovi che vengono dall’Italia e da altre nazioni europee. Ultimamente (come in Europa) i conflitti ideologici fra sinistra e destra si sono inaspriti a tal punto da rendere a volte difficile anche il contatto umano fra amici e membri della stessa famiglia. L’avvento del presidente Trump ha reso questo molto evidente e fino ad oggi gran parte dei seguaci della sinistra democratica non lo accettano».

Chissà quante persone ha incontrato negli anni del suo ministero. Come vede le nuove generazioni?

«Incontro persone meravigliose che vengono da varie parti del mondo con storie forti e particolari, non sempre facili, il più delle volte di persecuzione, oppressione e sofferenza. I figli dei nuovi migranti danno un senso di speranza che è quasi contagiosa. Sognano e non hanno paura. Lavorano e sono contenti di averne l’opportunità. Li vedo impegnati, sempre sotto pressione e coinvolti non solo nel loro campo di lavoro ma anche nella società per creare nuove aperture culturali ed educative».

Come si sono evoluti i flussi migratori in questi decenni? La sua congregazione come è riuscita a cambiare pelle, mantenendo sempre intatto il proprio carisma?

«Il beato Scalabrini diceva: “La migrazione umana è un fattore naturale e storico e non può essere né

Padre Polo con padre Leonir Chiarello, superiore generale dei missionari scalabriniani

forzato né impedito ma solo regolato per il bene dei migranti. Se ben gestito può portare grandi benefici ai Paesi ospitanti”. L’uomo non cesserà mai di emigrare perché ci saranno sempre cause (guerre, violenze, catastrofi naturali o semplicemente la volontà di migliorarsi) e occasioni che attirano un migrante verso un futuro migliore. Noi stiamo cambiando all’interno della nostra comunità con missionari che vengono da etnie nuove. Noi italiani siamo ormai pochi. Le fattezze e le fisionomie non sono europee ma c’è dentro ciascuno lo spirito di Scalabrini che ci rende fratelli e compagni di viaggio insieme ai migranti».

Con i suoi occhi da “emigrante”, come vede il boom migratorio verso l’Italia? Quali suggerimenti nell’accoglienza, in un clima così spesso ostile?

«Soffro quando tanto dall’Italia e dall’Europa come anche da questa parte dell’Oceano, sento ostilità e pregiudizi nei riguardi dei migranti, soprattutto conoscendo de visu gli enormi sacrifici che devono affrontare e i pericoli a cui si sottopongono pur di uscire da ambienti dove la vita umana diventa impossibile. L’Italia, in particolare, deve ricordare che è stata per secoli un Paese di immigrazione (le cosiddette invasioni barbariche) ed emigrazione (sono due secoli ormai che gli italiani emigrano dove trovano un approdo e un’opportunità di sviluppo e di miglioramento personale o di apertura di vedute). L’Italia è ricchissima di una cultura che non può essere scalfita o danneggiata dai migranti ma è fatta per nutrire nuove genti e nuovi popoli come è avvenuto da secoli. La cultura mediterranea, che include pienamente l’Italia, ha nutrito il mondo intero da secoli e secoli fino ad oggi. La Chiesa ha una missione su questi campi così immensi, sotto la guida di papa Francesco si stanno compiendo passi profetici per spianare il futuro e togliere le erbacce dell’odio e del pregiudizio e permettere a questi nuovi semi che la Divina Provvidenza ci manda da fuori di germogliare e di creare nuovi campi e nuove culture. Questa era essenzialmente l’intuizione profetica di Scalabrini».