No all’acqua quotata in borsa, non è una merce qualsiasi

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Da oltre un anno l’acqua è quotata in borsa: per la prima volta nella storia, è accaduto il 7 dicembre 2020 quando una grande società finanziaria, la Cme Group, ha lanciato il primo future al mondo sulla risorsa idrica.

I future sono contratti che permettono una facile negoziazione in borsa e sanciscono l’impegno ad acquistare, in futuro, a un prezzo prefissato nell’oggi.

Dove sta l’interesse?

Secondo chi sostiene la quotazione, questa pratica aiuterebbe aziende agricole, imprese e municipalità a proteggersi dai rischi di un’eventuale carenza improvvisa di acqua.

Ma, se anche così fosse, in cambio di quali conseguenze? Come tutto ciò che viene quotato in borsa, il suo prezzo sarebbe influenzato dall’andamento del mercato finanziario e presto l’acqua finirebbe nelle mani di pochi gruppi speculativi.

A denunciare questo spettro sono i sostenitori della Campagna “Liberiamo l’acqua dalla borsa”, lanciata dall’Associazione internazionale “Agorà degli Abitanti della Terra” in vari Paesi come Argentina, Belgio, Brasile, Cile, Francia, Italia, con l’obiettivo di diffonderla sempre di più.

D’altronde, la prospettiva di scommettere sul valore finanziario dell’acqua non piace a nessuno che le riconosca un ruolo centrale nella vita non solo del pianeta, ma anche e soprattutto di ogni essere umano.

Il valore dell’acqua, fanno riflettere i promotori della Campagna, è molto più del suo prezzo: l’acqua ha un valore enorme e complesso per il cibo, la cultura, la salute, l’istruzione, l’economia e l’integrità dell’ambiente naturale.

A conferma di ciò, ogni anno il 22 marzo si celebra la Giornata mondiale dell’acqua con il fine di richiamare l’attenzione pubblica sull’importanza della risorsa e di promuovere un suo consumo più responsabile e consapevole.

Non solo: lo scopo di questa ricorrenza è anche quello di centrare il Goal n.6 dei 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) da raggiungere entro il 2030: acqua pulita e servizi igienico-sanitari per tutti.

Eppure oggi 2,2 miliardi di persone non hanno ancora accesso all’acqua potabile e 3,4 miliardi non dispongono di servizi igienici di base. Sottoporre l’acqua alla speculazione finanziaria significa gettare le basi per permettere a poche grandi società di controllare le risorse idriche e aprire scenari che porteranno all’emarginazione di territori, popolazioni, agricoltori e piccole imprese, aggravando la crisi globale ecosistemica, climatica, economica, sociale e sanitaria.

Inoltre la quotazione dell’acqua in borsa vanifica, di fatto, la risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 2010 che ha sancito il diritto universale all’acqua, come diritto umano.

In Italia la posta in gioco ha un valore aggiuntivo: non dobbiamo dimenticare, infatti, il voto di 26 milioni di cittadini che nel 2011 si espressero in un quesito referendario ad hoc, dicendo che l’acqua doveva restare un bene di natura esclusivamente pubblica e che da essa non si poteva trarre profitto.

Ecco perché anche in Italia la Campagna “Liberiamo l’acqua dalla borsa” ha una grande eco. Chi la sostiene, tra cui il movimento cattolico Pax Christi, chiede – tra le altre cose – che vengano immediatamente vietate le transazioni finanziarie sull’acqua;

che le società di gestione dei servizi idrici non siano quotate in borsa; che venga rigettata la monetizzazione della natura e venga riconosciuto il diritto di fiumi, mari, laghi, ghiacciai e dei loro ecosistemi di esistere in quanto tali, come beni universali della vita.

Ma i promotori della Campagna vanno anche oltre, suggerendo che venga creato il Consiglio mondiale dei cittadini per la comune sicurezza idrica della Terra, che si costituisca l’Assemblea Mondiale dell’Acqua e che siano intraprese azioni legali contro gli Stati che non salvaguardano e non garantiscono la rigenerazione delle acque.

Nel mondo sono vari i comitati popolari e locali che si impegnano per preservare il valore dell’acqua come bene comune.

Uno di questi è a Tacagua, in Bolivia, dove nell’estate scorsa si sono riuniti circa 150 membri delle comunità che compongono la Rete nazionale delle donne in difesa della Madre Terra. La loro preoccupazione è la minaccia che le compagnie minerarie entrino ad esplorare e sfruttare i loro territori, compresa l’acqua.

Così hanno unito le forze in difesa dei diritti collettivi. Lo hanno fatto durante l’apthapi (letteralmente “portare” in lingua quechua), una pratica comunitaria diffusa sulle Ande nella quale, senza restrizioni né gerarchie, si condividono cibo, idee, sentimenti, conoscenze e decisioni.

Al centro di questa condivisione, è stata posta l’attenzione sull’acqua e sulle altre risorse naturali il cui sfruttamento genera violazioni dei diritti umani, sociali ed economici delle minoranze e dei popoli indigeni.

A Tacagua, l’apthapi è iniziato con una condivisione di prodotti locali come quinoa, fave, patate, formaggio e yogurt prodotti a Challapata grazie all’acqua della diga della zona, indispensabile per la produzione agro-casearia.

Poi la comunità si è pronunciata pubblicamente contro l’ingresso delle compagnie minerarie, poiché l’esperienza mostra che l’attività estrattiva comporta impatti ambientali molto negativi e costituisce una minaccia soprattutto per le fonti idriche.

Per questo l’apthapi si è concluso con un gesto simbolico: la consegna di vasi contenenti acqua, per sottolineare l’impegno a combattere insieme in difesa delle risorse naturali a servizio della collettività.