In missione nella periferia di Palermo, ricordando p. Puglisi

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Nell’altra Palermo, nel quartiere Brancaccio, dove il beato Pino Puglisi fu ucciso dalla mafia nel 1993. Qui come a Danisinni e allo Zen, una fitta rete di sacerdoti, di volontari e volontarie vivono la missione quotidiana di coltivare la speranza.

È il grigio il colore della periferia, nell’immaginario di chi si sente al centro del mondo. Perché evoca degrado, tristezza, abbandono. Eppure, in diversi quartieri di Palermo, artisti come Igor Scalisi Palminteri provano ad «invadere di bellezza quegli spazi» con i loro murales.

L’ultimo lo ha dedicato al beato don Puglisi, proprio nel luogo in cui fu ucciso per mano mafiosa il 15 settembre 1993. «è un trittico che abbraccia la piazza», spiega Igor, che oltre al ritratto su una palazzina popolare, ha dipinto un fiammifero alto nove piani e un roveto ardente su una cabina Enel.

«Hanno spento la sua fiamma, ma l’incendio era ormai divampato» in quello che, per Valentina Casella, 37 anni, molto attiva a Brancaccio, «non è più il quartiere dei fratelli Graviano, ma di don Pino». Per lei, che ogni mattina arriva nei locali della parrocchia San Gaetano, «è una missione».

Tra i palazzoni del Brancaccio

Ci racconta di una periferia nella periferia, la zona Stati Uniti (chiamata così perché in passato, allo snodo ferroviario, si sentivano molti dialetti come a Brooklyn).

«Quasi un ghetto, da quando non è più collegata alla stazione centrale, dove prima del Covid andavamo a prendere i bambini per portarli in oratorio».

Oggi, i ragazzi sono la generazione sottratta alla mafia. «è questa la scintilla, in un posto che o te lo sposi o te ne vai», continua Valentina, che guarda quei murales e pensa che «è bello consumarsi per gli altri». L’esatto contrario del palermitano «si a me cunsumazione» (sei la mia rovina).

Come dice Igor, «c’è bisogno di cura, perché se trascuri un luogo, trascuri le persone: le stesse che don Pino faceva sentire amate, perché non si limitava a fare ‘a spisa (la spesa)».

Don Maurizio Francoforte, parroco a Brancaccio da 12 anni, è testimone di miracoli e cambiamenti in quella Conca d’oro che con Ciancimino ha visto agrumeti diventare cemento. Spera e denuncia che «non ci sono servizi né luoghi di aggregazione e molti sforzi non sono stati sostenuti e rilanciati.

La pandemia, inoltre, ci ha fatto fare passi indietro». La parrocchia, il Centro Padre Nostro e la onlus «suppliscono le istituzioni e chiedono cose normali» come un parco giochi comunale atteso da 10 anni o nuovi locali.

Per il sacerdote, «le periferie sono trattate come gli sgabuzzini, dove metti le cose che non ti servono e che vuoi nascondere. Occorre, invece, un patto di alleanza».

Nuova vita per gli spazi vuoti dello Zen

È la scommessa che si gioca da anni allo ZEN 2, con la presenza sul territorio di una Chiesa di frontiera e di associazioni fortemente impegnate su più fronti.

In un quartiere realizzato tra gli anni Sessanta e Settanta e mai completato, con l’eterno problema delle assegnazioni e degli allacci di luce, acqua e gas, l’Istituto di S. Maria Bambina «opera a diretto contatto con le persone» dal 1983.

«Di fronte a quei casermoni in fila, occupati abusivamente da chi lasciava il centro storico dopo il terremoto, il mio primo pensiero è andato alle betoniere, ma poi ho visto una grande umanità», confessa suor Anna Martini, 61 anni, che nell’esasperata vicinanza delle insulae progettate da Gregotti, vede un’opportunità di incontro. «Sembra un carcere a cielo aperto, ma se entro c’è vita e vedo il Signore che passa attraverso la carne della gente».

Tra disoccupazione, spaccio e «situazioni che portano a delinquere o a vivere di espedienti, c’è una grossa fetta di gente che si dà da fare e cerca un riscatto per sé e i propri figli».

Contro ogni stigmatizzazione, c’è chi ha concluso il percorso di studi o formato una famiglia e chi è rimasto per «vivere responsabilmente un’appartenenza».

Come il gruppo che nel 1998, con le suore, ha posto le basi per l’associazione “Lievito”. Salvo Casella, 38 anni, è il presidente. «Un percorso non facile all’inizio, ma ora sono le famiglie a chiedere attività laboratoriali e di sostegno scolastico, in un rapporto sempre più fondato sulla fiducia».

Per lui, la periferia è «un posto che è in città ma non è in città, dove gli autobus passano quando passano; è la percezione di essere un mondo a sè stante. In molti, infatti, usano dire “andiamo a Palermo” oppure “non ci hanno riconosciuti che siamo dello Zen”».

Sui ragazzi «il pregiudizio pesa e si tramuta in esclusione o isolamento», l’identità diventa scudo o segreto.

Proprio contro gli stereotipi e la marginalità si batte da più di 30 anni l’Associazione “Zen Insieme”. Mariangela Di Gangi, 36 anni, è presidente dal 2012; prima, è stata per 10 anni l’assistente personale di Rita Borsellino.

«Avevo bisogno di capire dove si rompeva il meccanismo e se lo Zen era un quartiere davvero irredimibile».

Dalla politica dei Palazzi a quella tra i palazzoni, perché «la povertà (anche educativa) non si tramanda geneticamente e gli errori che causano gap sono da ricercare altrove»: nell’ingiustizia sociale «dove la mafia ci sguazza», nelle pratiche calate dall’alto, nel defilarsi dei politici.

Tra i tanti interventi, spiccano la biblioteca “Giufà” e il giardino realizzato con la Biennale Manifesta: «una sfida che il quartiere ha accettato, frutto di un processo comune».

Da qui, la domanda: «cosa vogliamo fare della periferia?». Al di là delle regolarizzazioni, il sogno è quello di una vita normale, fatta di diritti, servizi, attenzione. è la speranza che nella fatica guarda oltre, è il fiammifero che accende il roveto.

Danisinni. il rione nato in un fosso

Per dirla con fra’ Mauro Billetta, parroco di Danisinni, classe 1970, «serve una visione». Come quella che ha riscattato un borgo di sette ettari e 2000 abitanti a pochi passi dalla Cappella Palatina, al centro di Palermo. «Non è una periferia geografica, ma sociale; era una zona non di transito, esclusa dal circuito arabo-normanno e dal traffico e dal commercio».

Situata in un’area depressa del fiume Papireto e in un contesto malavitoso, quella che Marco, 15 anni, definisce «il cuore nel cuore» aveva bisogno di riemergere.

Neppure un negozio, e l’asilo nido chiuso dal 2008, in un borgo che conta 290 neonati. «Con il Centro Tau, abbiamo lottato perché il Comune non lo abbattesse; in autunno inizieranno i lavori». Da sette anni, «insieme alla comunità si è avviato un processo di rigenerazione urbana che ha radici nella fede, un circuito virtuoso di economia circolare».

Il rione si è attivato intorno al «cortile del buon Samaritano, uno spazio di cura e relazione» (parco giochi, biblioteca, poliambulatorio, centro psicologico, sportello di mediazione e piccola residenza per le emergenze).Su un ettaro di terreno attiguo alla chiesa, nel Parco di S. Agnese, una fattoria urbana e un orto sociale; in parrocchia, nella Casa “Pane spezzato”, le Suore Cappuccine dell’Immacolata di Lourdes lavorano con le donne e i bambini. E poi il teatro sociale, il museo a cielo aperto e l’ostello che incrementerà l’esperienza di turismo sociale e home restaurant.

Partiranno anche micro imprese, tra cui la cucina dei sapori su moto-api.

Come dice Anna Staropoli, sociologa dell’Istituto “Pedro Arrupe”, «la pietra scartata è diventata testata d’angolo; laddove si riconosce alle persone la capacità di essere co-autori del cambiamento, nascono esperienze interessanti di cittadinanza attiva e laboratori di welfare».

Ogni periferia è diversa dall’altra, ma «tutte hanno dentro delle ferite collettive che, grazie al desiderio di molti, sono state trasformate in luoghi generativi di creatività e di bellezza».

(Questo reportage + stato pubblicato sul numero di luglio-agosto di Popoli e Missione).