La pace, la guerra e l’anno che verrà

Facebooktwitterlinkedinmail

Il terzo decennio del millennio si è aperto con un mondo decisamente malato. E non solo per la persistenza – e in molti luoghi per l’accentuazione – della pandemia del Covid 19.

Si è registrato un regresso su tutti i parametri previsti degli obiettivi di sviluppo sociale e sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu, a partire dalla netta contrazione degli aiuti allo sviluppo. Al tempo stesso, nelle principali aree di crisi si sono inasprite le situazioni di conflitto.

Si è fatta più difficile anche l’azione della Chiesa nelle situazioni di povertà e di pericolo per le popolazioni più discriminate.

Ci sono chiavi di lettura diverse per indagare le prospettive del futuro, anche immediato. Una è quella, abbastanza facile e purtroppo molto diffusa e consolidata, di perpetuare la lettura della realtà nella logica del conflitto, tra popoli, tra classi sociali, e da tempo anche tra generazioni.

Né mancano certo gli eventi atti a nutrire questo tipo di lettura: dalle distorsioni della sanità mondiale, al persistere della fame e del sottosviluppo; dal fenomeno epocale della mobilità umana, figlio del conflitto e al tempo stesso diventato arma del conflitto e di pressioni ricattatorie, al pervicace ricorso alla guerra, da sempre strumento privilegiato di affermazione degli interessi di pochi a danno dei più. Senza parlare dell’arretramento della cultura dei diritti umani, quelli veri, e non di quelle parodie di quanti confondono libertà con licenza.

Un’altra chiave di ragionamento, di indagine – e di impegno non solo ideale, sentimentale o “buonista”, ma concreto, sostanziale e positivo – parte dal guardare agli obiettivi più importanti: la vita, la pace.

Una traccia per questo ragionamento, un’indicazione per questo impegno a un artigianato di pace, a un servizio alla vita da opporre alla cultura di morte, all’industria arrogante del conflitto e della guerra, la offre il magistero pontificio.

Nel messaggio per la Giornata della Pace, che si celebra il 1° gennaio, papa Francesco ha indicato tre contesti su cui riflettere e agire.

Da qui il titolo: “Educazione, lavoro, dialogo tra le generazioni: strumenti per edificare una pace duratura”.

Il percorso proposto nel 2021 era orientato a «debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente», e quest’anno Francesco invita a un ulteriore approfondimento di questa chiave di lettura, di questo impegno per «leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi», per citare quanto affermò già nel discorso alla Curia Romana in occasione degli auguri natalizi di due anni fa.

Domande che sollecitano risposte. Del resto, annunciando lo scorso novembre il tema della Giornata 2022, il dicastero vaticano per il Servizio dello sviluppo umano integrale, sottolineava che, partendo dai tre contesti individuati dal papa, ci si può e ci si deve chiedere come possono l’istruzione e l’educazione costruire una pace duratura;

se il lavoro nel mondo, risponde di più o di meno alle vitali necessità dell’essere umano sulla giustizia e sulla libertà; se le generazioni siano veramente solidali fra loro e credano nel futuro; e infine in che misura i governi delle società riescano ad impostare orizzonti di pacificazione.

Sugli stessi temi, per stare al solo contesto europeo – di un’Europa lacerata e inasprita come mai da decenni – si era espressa in ottobre l’assemblea generale del Consiglio delle Conferenze episcopali del continente (CCEE), riunita a Santiago di Compostela, un luogo simbolo come pochi dell’essere in cammino proprio dei cristiani.

Ai vescovi papa Francesco aveva raccomandato appunto di «vivere questi giorni come un cammino, teso a scorgere i segni di speranza che costellano l’Europa dei nostri giorni», ricordando che la carità «è il più grande antidoto contro le tendenze del nostro tempo, piene di lacerazioni e di contrapposizioni».

Tra le sfide dell’anno che si apre, quella sul contenimento e sul contrasto del cambiamento climatico è probabilmente la più rilevante (insieme a quella delle risposte agli eventi pandemici). Anche qui la premessa non è incoraggiante: la 26esima conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop26) dello scorso novembre a Glasgow ancora una volta non ha ottenuto l’accordo globale per il raggiungimento di obiettivi vincolanti.

Tra gli aspetti più controversi della questione c’è il perdurare, spesso truffaldino, del sistema delle cessioni di quote di emissione dei gas serra.

In parole povere, i Paesi “più avanzati” comprano le quote di quelli meno industrializzati, impedendo di fatto una riconversione tecnologica verso l’uso delle fonti sostenibili nelle zone povere del mondo (Africa in primis, ma non solo).

Questi ultimi, infatti, di emissioni industriali ne hanno poche, ma in compenso vedono aumentare le proprie emissioni per le distorsioni del cosiddetto ciclo del carbonio provocate da deforestazione, agricoltura e allevamenti intensivi finalizzati ai consumi della parte ricca del mondo.

In una sorta di neocolonialismo all’apparenza soft i crediti di emissioni minacciano di trasformarsi da strumenti per combattere il riscaldamento globale in pratiche speculative non dissimili dagli artifici finanziari imposti negli ultimi 30 anni (tipo i derivati), con conseguenze persino più devastanti della crisi del decennio scorso.

Si può anche in questo caso denunciare la miopia di una politica mondiale delle contrapposizioni o indagare un fragile compromesso tra quanti hanno inquinato per secoli e quanti inquinano oggi, ma non conta la bilancia dei torti, storici e contemporanei, di fronte a una minaccia che riguarda tutti.

Ed è poco il tempo per arginarla. Poco e non nostro, non della generazione che oggi gestisce il mondo, perché è il tempo, la vita dei nostri figli che stiamo rubando, o addirittura cancellando.