La Cina è vicina, ma a chi? Una riflessione sull’ecosistema (e il Mercato)

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Verso la fine degli anni Sessanta si diffuse un mantra (chi per sostenere l’universalità della “Rivoluzione culturale” maoista e chi per diffonderne lo spauracchio) : “La Cina è vicina”.

Questo era lo slogan con cui titolava anche un film di successo del 1967, diretto da Marco Bellocchio.

Erano tempi in cui la popolazione cinese, inferiore per numero alla metà di quella attuale, versava in condizioni di estrema povertà.

Anche solo promettere un piatto di riso al giorno per tutti, poteva far raccogliere quel consenso popolare indispensabile alla instaurazione di un sistema di governo tutt’altro che democratico.

Tant’è che veniva attribuita proprio a una delle tante massime coniate dalla propaganda cinese di allora la macabra frase: «Se vedi muoversi un puntino nero all’orizzonte spara, potrebbe essere un prete».

Da allora l’”impero” cinese ha cominciato gradualmente a imporsi al resto del mondo non più come custode di una civiltà ultra-millenaria statica e perciò obsoleta, ma come modello di sviluppo competitivo su scala mondiale.

In grado di offrire opportunità di riscatto sociale ed economico soprattutto ai Paesi, in particolare l’Africa, ancora intenti ad uscire dalle sabbie mobili in cui le istituzioni statuali coloniali li avevano pressoché abbandonati.

Già oltre 40 anni fa si potevano trovare nei mercati dell’allora “Terzo Mondo” utensilerie e apparecchiature tecnologiche cinesi a prezzi molto più vantaggiosi, benché di qualità palesemente inferiore, rispetto a quelle importate dalle industrie dei Paesi “sviluppati”.

Tacciare, però, di neocolonialismo la crescente influenza della Cina nel mondo non deve e non può giustificare la massiccia ondata di delocalizzazioni produttive proprio verso la Cina stessa.

L’Occidente guarda con interesse, a volte con ammirazione, altre volte con sconcerto, l’evoluzione sociale e politica della Cina moderna, incapace di darsi una chiara spiegazione di come una nazione così grande possa un giorno raggiungere i livelli di consumo pro capite ai quali noi siamo abituati.

Che ne sarebbe del resto del mondo se, com’è abbastanza diffuso da noi, i componenti adulti di ogni famiglia cinese, anziché essere “costretti” ad usare i mezzi pubblici, avessero la disponibilità di un’automobile per andare al lavoro e in vacanza?

Se andassero a fare la spesa al supermercato portando a casa la stessa quantità di beni e di imballaggi da smaltire, e facessero tutti uso dei comuni elettrodomestici?

Sarebbe una catastrofe a livello globale a causa dell’impatto sull’ecosistema con effetti irreversibili.

Tali da compromettere la sopravvivenza di tutto il pianeta. Forse.

Ma chi, eventualmente, avrebbe il diritto e il potere di vietare ai cinesi di assumere uno stile di vita consumistico simile al nostro?

Non c’è dittatura che tenga davanti al mercato.

E allora, che fare?

A questo interrogativo non è per nulla facile trovare una convincente risposta che faccia salvi i nostri privilegi.

Possibile che proprio quando noi ci avvediamo della necessità di assumere uno stile di vita forse più sobrio, i cinesi, sempre più “vicini” alle popolazioni dei Paesi economicamente più svantaggiati, daranno al via al loro consumismo sfrenato?

Nonostante le iniziali resistenze della Cina nel dare seguito allo storico Trattato internazionale di Parigi del 2015 sul clima, non ci resta che confidare nella saggezza che da millenni ha sorretto il popolo cinese e della quale sono diventati partecipi anche illustri missionari, a cominciare dal gesuita Matteo Ricci, a lungo osteggiato precursore del processo di inculturazione del vangelo in Cina.

Un processo avviato nella Cina imperiale del XVI secolo e ora rivitalizzato dalla ferma volontà di papa Francesco e condotto dalla convinta azione diplomatica della Santa Sede, che ancora oggi, probabilmente, deve confrontarsi con le medesime resistenze di allora.