In Kenya la rivolta sociale contro diseguaglianze e corruzione, sfociata in numerose proteste di strada, poi soffocate, è ancora molto viva.
Così come lo è in diversi Paesi dell’Africa in tumulto, tra cui Angola e Madagascar.
Eppure il resto del mondo ha ignorato per mesi la portata di questi eventi che covano da anni e i reiterati messaggi al potere, lanciati dai giovani africani, nello specifico al presidente keniano William Ruto e al suo entourage.
Le manifestazioni si sono fatte più rade e più intense in Kenya e somigliano sempre di più ad una vera prova di rivoluzione.
Dopo tutto questo tempo – il primissimo corteo di massa risale al 25 giugno 2024 – la forza eversiva, nonostante l’alto numero di morti, feriti e scomparsi, non si è mai spenta.
«Nessuno è soddisfatto delle politiche di Ruto, tutti sentono che è giusto lottare per i diritti dei più poveri», ci spiegava a luglio dell’anno scorso Elisa Lupi, ginecologa e missionaria della Comunità di Villaregia.
Almeno 20 persone sono state uccise dalla polizia tra giugno e luglio di quest’anno e poi altre ancora alla fine del mese di luglio.
«Ma in questo momento le forze dell’ordine sono in tensione: i ragazzi filmano tutto con i loro telefonini e i video delle violenze fanno il giro del mondo», racconta Lupi.
Classe media e proletariato poverissimo sono uniti nella lotta: «per la prima volta si va oltre le divisioni tribali».
Il mondo missionario difronte ad uno scenario che è chiaramente di sovversione (sempre meno pacifica) e che perciò suscita timori e tentennamenti, è diviso.
Resta a guardare, prende posizioni parziali, sostiene i giovani e i poveri ma redarguisce gli atti di vandalismo e violenza per le strade delle città.
La rabbia dei manifestanti è spesso aggressiva e ci sono infiltrazioni di elementi che vanno oltre la piazza.
Gli stessi comboniani si esprimono poco e attendono di avere un quadro più chiaro delle cose.
Ma una rivoluzione non è mai di velluto. La Chiesa locale ufficiale tace ma la Chiesa di strada e quella delle perfierie è invece completamente fuori dal politically correct.
Un missionario di riferimento per gli slum di Nairobi, fra Ettore Marangi, francescano da Deep Sea scriveva il 25 giugno scorso:
«sono in Italia ma col cuore vicino ai giovani keniani (rappresentanti di tutti i giovani africani) che oggi in pace fanno memoria di coloro che furono uccisi dalle forze dell’ordine durante le manifestazioni dello scorso anno e con ironia prendono in giro il potere.
Nella loro capacità di sognare piuttosto che nella nostra apatia è racchiuso quanto di bello può avere il futuro dell’umanità».
L’apatia occidentale di fronte al risveglio delle coscienze africane che lottano per liberarsi dai despoti, è anche quella che consente ai despoti di continuare a reprimere.
Albert Ojwang, giovane insegnante e blogger è stato arrestato e poi è deceduto in una stazione di polizia, con segni evidenti di tortura e maltrattamenti.
La sua figura è diventata il simbolo di una generazione stanca di soprusi che chiede rispetto, verità e riforme profonde. «Albert è uno di noi», dicono i ragazzi.
I gruppi sono ancora troppo slegati, c’è poca organizzazione verticistica e molta propagazione a macchia d’olio: ma questo è anche l’elemento che rende il movimento poco politicizzato e molto genuino.
Non si lascia incanalare dai partiti.
Da ultimo, il tentativo del governo di Nairobi è quello di screditare del tutto i manifestanti, bollandoli semplicemente come violenti e sobillatori, distruttori dell’ordine pubblico.
(Una versione completa di questo pezzo è stata pubblicata sul numero di settembre-ottobre di Popoli e Missione)

