Ibrahima Lo: “l’inferno Libia, la morte dei miei compagni in mare”

Intervista ad un attivista senegalese, giovanissimo protagonista del mondo migratorio.

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Dal Senegal si scappa per arrivare in Europa: ma la fuga costa cara. I pescatori senegalesi emigrano perché non hanno più pesce da pescare. Il viaggio è un inferno e si conclude spesso con la morte. Un sopravvissuto racconta. Intervista ad Ibrahima Lo.

«Io non consiglierei mai a nessuno di fare il viaggio che ho fatto io… E’ stato duro, pesante, ho sofferto tanto. Cerco di parlarne, di fare video, di raccontare ai miei fratelli che vivono in Africa, soprattutto in Senegal, cosa vuol dire attraversare il deserto del Sahara. E il mare. Perché lo faccio? Non perché io voglia dire loro di non venire, ma se devono venire cercassero le strade migliori! Non quelle che abbiamo preso noi».

A parlare, in questa lunga intervista è Ibrahima Lo, un ragazzo senegalese di 20 anni che oggi vive a Venezia, fa l’attivista con Mediterranea, studia e si batte per la giustizia d’oltreoceano.

«Noi che abbiamo vissuto sulla nostra pelle il tremendo viaggio, possiamo raccontarlo agli altri – prosegue – Ma venendo dall’Africa vi posso assicurare che se chiudi qualcuno dentro casa poi gli devi dare il cibo per mangiare!

Noi possiamo anche alzare la voce e dire a chi è lì di rimanerci, ma il problema resta: loro non hanno lavoro, non possono studiare, non possono mangiare! Ecco perché partono».

Tre anni fa Ibrahima ha tentato il tutto per tutto. Ce l’ha fatta ma il dolore che ha dovuto sopportare (soprattutto nei campi libici) e la grande resistenza fisica e psichica che ha messo in atto, sono stati uno sforzo troppo elevato per un essere umano, poco più che bambino.

Oggi Ibra (così lo chiamano molti amici italiani, tra i quali don Nandino Capovilla) è uno studente universitario che ha scritto un libro importante: “Pane e Acqua, dal Senegal all’Italia passando per la Libia”, edito da Villaggio Maori.

 Viaggio che uccide

«Noi vogliamo che l’Africa ce la faccia da sola. Vorremmo non dover partire. Ma per ora questo non è possibile», dice il ragazzo. Concedere dei visti, non chiudere le frontiere, dare la possibilità a chi vuole di tentare un viaggio sicuro in Europa, per una vita migliore: è questa l’ottima scelta. Questo però è un miraggio.

«Quando sono partito avevo 16 anni: mio padre era morto, io ero solo e non potevo continuare a studiare. Amo studiare e sogno di diventare giornalista.

Un mio amico allora mi disse che dovevo partire, e mi fidai – ricorda – Prima avrei preso un autobus per passare il Mali e arrivare in Niger, in Niger un pick up per attraversare il deserto e da lì in Libia; dalla Libia il gommone per l’Italia. Avevo fiducia in questo amico di famiglia: il viaggio sembrava facile e sono andato. Però non avevo capito nulla!».

Secondo i dati dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), sono più di 22mila le persone morte nel Mediterraneo tra il 2000 e il 2014. Negli anni successivi, dal 2015 al 2020 questo numero è stato di 16mila e 731 vittime.

Ma la cosa davvero drammatica è un’altra: «chi muore nel deserto del Sahara è più numeroso di chi muore in mare», dice Ibra. Tutti questi morti nessuno li conta. «Quando sono arrivato in Mali hanno preso i miei documenti e lì ho cominciato a scoprire cosa vuol dire essere un immigrato – ricorda Ibra – : basta che paghi ti fanno passare e il mio amico pagava… Noi migranti per i passeur siamo solo dei bancomat».

Bere pipì e finire nei lager

Negli ultimi cinque anni, spiega anche il nuovo rapporto della fondazione Migrantes, “Il diritto d’asilo. Costretti a fuggire… ancora respinti”, sono entrate irregolarmente nel territorio dell’Unione Europea circa 2 milioni di persone, gran parte delle quali in fuga da Paesi coinvolti in conflitti interni o internazionali.

Nello stesso periodo gli arrivi attraverso una forma di “ammissione umanitaria” sono stati circa 100.000, appena il 5%.

Un numero ancora troppo basso. Il racconto prosegue e la voce di Ibra è rotta dalla commozione. «Di notte è freddissimo e di giorno fa caldo nel deserto. Non avevamo acqua, dovevamo bere quella sporca e poi c’era la nostra pipì…».

Il viaggio è una corsa ad ostacoli: chi resta vivo prosegue. «Vedevamo la Libia come il paradiso: “quando arriveremo in Libia potremo mangiare e fare una doccia”, dicevamo, “potremo bere l’acqua”.

E invece una volta arrivati in Libia è iniziato l’inferno vero». La sofferenza dei migranti lì è appena all’inizio.

La Libia è un buco nero di aberrazione e crudeltà dove l’uomo perde la sua umanità. «Ci chiedevano soldi e ci picchiavano – racconta – erano botte con i kalashnikov, lì uccidono gli esseri umani come fosse niente».

Nello Scavo, giornalista di Avvenire, racconta da anni i viaggi della morte: «il fatto che abbiamo potuto raccontare la Libia ci toglie l’alibi del “non sapevamo” – spiega – Raccontare è stato un lavoro lungo e faticoso;

Milioni di euro sono stati versati alle milizie mafiose libiche: solo per la guardia costiera libica abbiamo dato oltre 780 milioni di euro con il risultato che adesso sono controllate dai turchi».

La Libia “prima della Libia”

Ibra è tornato dai campi libici con diverse ferite e cicatrici, centinaia di suoi compagni invece non ce l’hanno fatta e non potranno mai raccontare: sono morti in catene.

La Libia è un buco nero che inizia con il rais Mohammed Gheddafi: «ricordo prima della caduta di Gheddafi, quando i servizi segreti italiani inviarono un gruppo di uomini a visitare i campi di prigionia gestiti dal raisspiega ancora Nello Scavo – ho riletto il rapporto di questi agenti (e parliamo di gente con il pelo sullo stomaco!), diceva: “i miei uomini sono dovuti uscire perché hanno avuto un malore”. Già allora ci mettevano in guardia, ma dopo le cose sono addirittura peggiorate».

Nello Scavo denuncia: «in questi anni abbiamo raccontato una menzogna di Stato: da una parte ci veniva detto che avevamo portato le Nazioni Unite in Libia e che stavamo rimettendo tutto a posto; dall’altra i migranti come Ibra ci raccontavano cose ben diverse. Il silenzio di ciascuno di noi è complice».

Morire per un tonno: il caso del Senegal

Di fronte a tanto dolore il “perché si parte” è una domanda doverosa. Ma nelle risposte di chi è andato, è compresa la responsabilità degli europei. Prendiamo ancora una volta il caso del Senegal. Perché si parte? E perché non si resta?

«Vuoi sapere perché? – dice ancora Ibrahima Lo – Dal Senegal è nata un’altra rotta migratoria, quella dalle Canarie, per arrivare in Spagna; e questo è accaduto perché c’è un accordo europeo in corso. I pescherecci di altri Paesi europei possono pescare nelle acque senegalesi. Ci sono tante navi europee che vanno lì a pescare e allora come fanno i pescatori africani a vivere? Scappano!».

La storia dei pescatori senza più pesce è una storia vera: l’attuale fisheries partnership agreement è un accordo stretto tra Unione Europea e Senegal (andava dal 20 novembre 2014 al 19 novembre 2019 ma è stato rinnovato di altri cinque anni).

Consente alle barche di Spagna e Francia di spingersi fino alle acque del Senegal alla ricerca di tonni: questo accordo è parte di una serie di intese commerciali che riguardano la filiera del tonno dell’Africa Occidentale. Poiché hanno molti più competitors di un tempo, i pescatori senegalesi rimangono sempre più a bocca asciutta.

«I miei amici pescatori non riescono più a pescare come un tempo e così decidono di partire e fanno lo stesso viaggio che ho fatto io – dice ancora Lo – Posso metterli in guardia, ma di fronte alla fame non c’è ragione che tenga».

E così, senza più lavoro e senza più tonno, i giovani provano ad arrivare clandestinamente in Spagna, dove molti di loro vivranno vite clandestine. Molti altri moriranno in mare prima di esserci arrivati. Ma avranno tentato il tutto per tutto.