GMM: Don Amedeo Cristino, dal Benin all’Etiopia a San Severo

Storia di un fidei donum rientrato

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«L’evangelizzazione? E’ un contagio che si trasmette attraverso l’abbraccio con persone, mondi e culture diverse».

Così don Amedeo Cristino racconta la sua esperienza di fidei donum in Benin e in Etiopia, spiegando il senso dell’andare ad gentes che fa dei missionari dei testimoni itineranti del Vangelo.

Appartengono a loro quei “piedi in camino” dello slogan della Giornata Missionaria Mondiale, piedi che attraversano le periferie del pianeta fino agli estremi confini della terra.

«L’ itineranza è la cifra dell’esperienza di Gesù, posare il piede sulla strada è toccare Gesù, il Vangelo si ascolta ma è anche cammino.

Da giovane prete a San Severo ho maturato il bisogno di toccare un’altra terra, di qualcosa di nuovo sul piano umano e spirituale.

Andare è un verbo che ci appartiene come cristiani: infatti “seguimi” è il comandamento a cui il discepolo risponde, ma non sempre le parole di Gesù sono facili da comprendere».

Durante le Giornate di formazione e spiritualità missionaria di Assisi promosse dall’Ufficio di cooperazione missionaria tra le Chiese dal 27 al 30 agosto scorsi, don Amedeo ha raccontato di essere partito per l’Africa «con l’arroganza del giovane prete che pensava di andare a portare qualcosa alla gente e invece ho trovato Gesù che mi aspettava lì, nel villaggio di Wansokou nel Nord del Benin, tra gente sperduta.

Sono i fratelli che devi raggiungere se vuoi incontrare Gesù vivo.

In un posto in cui ero l’unico ad avere l’orologio, mi chiedevano “ma perché voi bianchi che avete l’orologio non avete mai tempo e noi che non ce l’abbiamo, di tempo ne abbiamo tanto?”».

Così nelle lunghe giornate al villaggio, don Amedeo ha sperimentato che «andare è una scelta che comporta l’esperienza dello spaesamento, l’uscire dal tuo Paese, dalle consuetudini, aiuta a scoprire altre verità negli occhi degli altri».

La missione è esperienza di un nuovo modo di sentirsi comunità, un modo, continua don Amedeo «che mi ha stupito nel 1996 in Benin.

Era venerdì santo, celebravamo nell’ora più calda del giorno, nel mese più caldo dell’anno, in un luogo sperduto dove non accadeva mai nulla, dove non avevamo nemmeno un crocifisso ma solo due assi di legno incrociate.

In quel villaggio dimenticato, la gente era venuta vedere cosa facevano quei bianchi con le tonache.

A fine celebrazione una donna ha cominciato a cantare, poi sono arrivati i tamburi e tutti hanno cominciato a ballare».

Momenti unici che rappresentano solo frammenti di una esperienza missionaria incarnata nella costante ricerca di Dio nel volto dei fratelli.

«Alla Messa la gente diceva il Credo in una specie di francese – continua don Amedeo -. Penso che Dio li ascoltasse sorridendo.

Fermiamoci a riflettere su, come è il Dio in cui crediamo: nelle risposte c’è un tesoro immenso.

Uno di Wansokou mi ha detto “conosco Dio da poco, ma so solo una cosa: Dio sa ballare, da quando lo conosco anche io so ballare.

Da quando lo conosco la mia vita danza”. Allora ho capito che anche o dovevo danzare con loro, ho ballato al ritmo dei loro tamburi.

La polvere alzata da quei passi, era incenso che saliva al cielo, era il simbolo della nostra fede, era un Credo di polvere.

Anche il villaggio vedeva quella nuvola di polvere e sapeva che noi pregavamo. Non avrei mai conosciuto questa esperienza di fede se fossi rimasto parroco nel mio paese a San Severo».

Evangelizzare ed essere evangelizzati è una sola cosa.

Infatti «per cercare la verità bisogna guardare l’altro negli occhi.

Oltre l’andare c’è lo stare, il restare che è un verbo centrale nell’identità del missionario – continua don Amedeo -. La Chiesa è missionaria o non è. E’ l’esserci che fa la differenza.

Non è la geografia che fa la missione. La storia oggi fa altre domande, se la missione è identità personale, non è un fatto di geografia o di sigle impegnate a tempo determinato o ad vitam.

È uno stato d’animo che fa parte dell’identità personale e della Chiesa tutta.

Per questo oggi è importante ritrovare le ragioni dell’ad gentes, vincere lo smarrimento, smetterla di dire che “le cose sono cambiate e nulla è più come una volta”.

Non serve più la missione dell’andare per portare “cose”, per cambiare la vita degli altri. Dobbiamo andare perché noi abbiamo bisogno di rinnovarci, di rinascere, di andare a mangiare il pane di un altro e dire che è più buono del tuo.

La vita è troppo vasta per poter essere vista e descritta da uno sguardo solo.

Oggi i migranti sono occasione di scoprire qui i pezzetti di Dio, di vivere la missione senza viaggiare, la vita del missionario deve essere una provocazione all’andare, a smuovere la comunità per andare in Galilea e incontrare gli altri».