Filippine, dal tifone Ulysses si può imparare

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Nel mese appena concluso, le Filippine hanno dovuto fare i conti con ben due tifoni, l’ultimo dei quali – battezzato Ulysses – si è abbattuto sulla capitale Manila, causando morti e distruggendo tutto ciò con cui si è scontrato.

Le strade della metropoli si sono trasformate in fiumi in piena, gli edifici sono stati sommersi dall’acqua, i venti hanno soffiato ad una velocità di 155 Km/h. E tutto ciò si è aggiunto alla grave situazione sanitaria dovuta alla pandemia da Covid-19 che ha già provocato la morte di migliaia di persone e reso precaria la sopravvivenza di tante famiglie.

A descrivere nel dettaglio le conseguenze del tifone Ulysses sulla popolazione della città di Marikina, è padre Matteo Rebecchi, missionario saveriano a Manila, dopo essere stato per vari anni in Indonesia: «Man mano che arrivano i tifoni, li battezzano con nomi in ordine alfabetico e quest’anno siamo alla lettera U di Ulysses. Sebbene a grande distanza dal suo centro, le conseguenze si sono fatte sentire anche nell’isola di Luzon, nel Nord delle Filippine.

L’acqua, raccolta nei versanti della catena montuosa della Sierra Madre, ha gonfiato il fiume Marikina, causando l’inondazione di zone con un’alta densità di popolazione fra le quali la città omonima».

Qui, da più di un decennio, i missionari saveriani seguono la parrocchia di Nostra Signora di Guadalupe. I due sacerdoti e il diacono hanno avuto la casa invasa dall’acqua al piano terra. Molto peggio è andata alle abitazioni nelle aree più vicine al fiume, sommerse per tre metri o più: molte famiglie sono state costrette a sgomberare.

Padre Rebecchi, dopo due giorni dall’inondazione distruttiva, spostandosi in bicicletta ha visitato la zona più colpita, insieme al parroco della comunità locale, padre Emanuele Borelli.

«La gente – racconta il missionario – si dà da fare per ripulire le case o porta fuori le cose ormai rese inutilizzabili dall’acqua. L’atmosfera è surreale. Tutto ha il colore del fango, ma la gente saluta, ci accoglie, è felice quando riconosce il loro parroco».

Tutti parlano del disastro quasi con distacco, come di una cosa brutta, ma non definitiva. «Non vedo nessuno piangere o disperarsi – nota padre Rebecchi -. Un signore, seduto di fianco ad un cumulo delle sue masserizie recuperate dal fango, ci dice sorridendo: “Masaya pa rin”, che significa: “Nonostante tutto non ci è tolta la felicità”. Spontaneamente dico ad Emanuele: “Se tutto ciò fosse accaduto nei nostri paesi, in Italia, ben altra sarebbe stata la reazione: molto probabilmente la disperazione avrebbe avuto il sopravvento” Sarebbe logico e non ci sarebbe da stupirsi, visto la situazione disastrosa. Emanuele condivide questi miei sentimenti».

Si tratta di resilienza o di fede?

«Non so rispondere. Ma subito – prosegue il missionario – mi viene da pensare: non so se si tratti di una capacità naturale di risollevarsi da situazioni drammatiche, che qui sono spesso realtà quotidiane anche senza tifoni, o se sia vera fede. Ma quello che so è che io non avrei né la resilienza né la fede che questi filippini dimostrano di avere. Sono in Asia da qualche anno. La missione, e soprattutto la gente che si incontra in missione, ha ancora molto da insegnarmi per farmi crescere come uomo e come cristiano».

 

(Foto da dg.saveriani.org)