Etiopia, gli effetti della guerra e del Covid sull’economia

Don Nicola De Guio: "inizia la quaresima, per il digiuno ormai abbiamo una certa predisposizione".

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«Noi viviamo in una regione lontana dal Tigray e quindi sentiamo molto poco la tensione della guerra che ancora si combatte (tra esercito nazionale e Tplf tigrino ndr.) e la grave crisi umanitaria che ne è scaturita. Però qui, nella prefettura apostolica di Robe, cominciamo a sentire gli effetti della crisi economica, quella sì».

Don Nicola De Guio, fidei donum di Padova, in missione nell’equipe missionaria di Robe, nella Oromia, ci racconta al telefono gli effetti indiretti, eppure tangibili, di una tripla crisi in corso.

«I prezzi di molti prodotti sono drasticamente lievitati da una settimana all’altra: avevo necessità di comprare del cemento e ho scoperto che non si trova più così facilmente e che costa il 30% in più di prima – dice don Nicola – Aumentati molto anche i prezzi del riso e delle verdure».

Alla guerra civile (con infiltrazioni dell’esercito eritreo), scoppiata a novembre scorso, si vanno ad aggiungere una carestia dovuta a scarsità dei raccolti e invasione ciclica delle locuste al Nord, la pandemia del Covid, la crisi del commercio.  Tutto questo ha provocato una impennata dell’inflazione nel giro di pochi mesi.

«Mercoledì 17 marzo iniziamo anche noi la quaresima – spiega don Nicola – : qui celebreremo la Pasqua il 2 maggio. Con la diversità delle date e l’esperienza missionaria provo a pensare la quaresima partendo da digiuno, preghiera e carità. Apprezzo quello che ho, ma anche quanto solo Dio potrà colmare».

«Per il digiuno ormai abbiamo una certa predisposizione: la “dieta” missionaria ci regala il gusto del cibo semplice e quotidiano della gente delle nostre comunità; la vicinanza al mondo ortodosso e mussulmano (quando vivono il ramadan) mi fa riflettere e pregare su quanto so amare il Signore con tutto il cuore».

Tornando all’analisi sociale del Paese in difficoltà don Nicola dice che: «Si ha l’impressione che ci siano due Paesi in uno qui in Etiopia: noi viviamo in una relativa normalità, ma si tratta di uno stallo, di un’attesa.

Poi c’è il Tigray che soffre e poi Addis Abeba, dove si sente un po’ di più la paura del Covid e si prendono misure di protezione, ma tutto sommato la vita scorre come prima. Nella Oromia per evitare qualsiasi tensione sociale (mesi fa sono scoppiati disordini etnici ndr.) la polizia ha rafforzato la sua presenza».

La situazione politica sembrava stabile in Etiopia fino a questa estate: il premier Abiy Ahmed, ex militare che aveva studiato Peace keeping all’università e preso parte come attivista alla lotta contro il dittatore rosso Menghistu al potere fino al 1991, sembrava una garanzia di stabilità.

Con i suoi slogan rassicuranti aveva lanciato una “Making Ethiopia Great Again” (MEGA) strategy. Una strategia della “grande Etiopia” che prevedeva anche una grandeur economica, grazie al progetto della Diga sul Nilo.  Ma questo ‘sogno’ si è schiantato ben presto contro il muro delle richieste dei gruppi etnici maggioritari, soprattutto oromo e tigrini.

L’etnicità è il criterio centrale su cui si basa il sistema federale etiopico. Secondo alcuni studiosi come il docente kenyano Peter Anyang’ Nyong’o, questa politica, portata avanti per anni e per   poi “allentata” con l’entrata in scena di Abiy, ha istituzionalizzato le discriminazioni.

Amnesty International ha denunciato la morte di cinquantaquattro persone di etnia Amhara barbaramente ammazzate nel villaggio di Gawa Qanqa ad inizio novembre del 2020 da esponenti dell’Oromo Liberation Army.

Da lì in poi disordini e l’insurrezione armata nel Tigray, dunque l’attacco dell’esercito governativo. Oggi la situazione umanitaria è catastrofica nel Tigray.

«Si stima che siano 5 milioni le persone che necessitano di beni alimentari. Su un totale di 7 milioni (gli abitanti del Tigray), sono circa il 70%. – racconta Riccardo Buson, rappresentante del Cuamm in Etiopia –. Il sistema sanitario è quasi completamente distrutto. La popolazione ha bisogno di tutto, ma soprattutto di cibo e assistenza sanitaria».

«La zona in cui interverremo, per i prossimi 9 mesi circa, è quella fascia che va da Adigrat, più a nord, a Makellè, più a sud – ha aggiunto – Tutta quell’area rimane altamente instabile. Finora nessuno poteva entrare e le comunicazioni erano bloccate».

(La foto in evidenza è Unicef Etiopia, dal profilo facebook dell’agenzia).