Dopo 75 anni da Hiroshima, la minaccia nucleare persiste

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Il 6 agosto 1945 sulla città giapponese di Hiroshima fu sganciata la prima bomba atomica. Ma l’utilizzo delle armi nucleari non è solo un ricordo di 75 anni fa: è anche una minaccia per il presente.

A ricordare spesso l’attuale pericolo degli armamenti nucleari è il magistero di papa Francesco, insieme alle voci di associazioni cattoliche e di esponenti della società civile. Il rischio della minaccia atomica, infatti, non è stato cancellato con la fine della Seconda guerra mondiale. Una prova di attualità della questione è il Convegno “Prospettive per un mondo libero dalle armi nucleari e per un disarmo integrale” tenutosi in Vaticano nel novembre 2017, al quale sono seguiti numerosi interventi del Santo Padre in diverse occasioni sullo stesso argomento.

«E’ un dato di fatto – disse papa Francesco ai partecipanti al Convegno – che la spirale della corsa agli armamenti non conosce sosta e che i costi di ammodernamento e sviluppo delle armi, non solo nucleari, rappresentano una considerevole voce di spesa per le nazioni, al punto da dover mettere in secondo piano le priorità reali dell’umanità sofferente».

E aggiunse: «Le armi di distruzione di massa, in particolare quelle atomiche, altro non generano che un ingannevole senso di sicurezza e non possono costituire la base della pacifica convivenza fra i membri della famiglia umana».

La denuncia del papa contro ogni forma di belligeranza e contro la minaccia nucleare non si è mai fermata, segno che il pericolo è sentito come concreto. Ecco perché il ricordo del 75esimo anniversario dei bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki non è un atto formale. E’ piuttosto un ribadire quel “mai più” che il Santo Padre gridò nel novembre dello scorso anno, durante la sua visita apostolica in Giappone, quando spiegò: «L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune».

Effettivamente, guardando all’attualità, i segnali non promettono niente di buono, vista la continua crescita delle spese per gli armamenti. Ma se è vero che sono i governanti a scegliere come investire il denaro dei bilanci degli Stati, è anche vero che nella vita quotidiana ognuno può fare la sua piccola parte.

La proposta arriva da Pax Christi, da alcune riviste missionarie e da esponenti della società civile che hanno lanciato la nuova Campagna di pressione alle banche armate, dal titolo: “Cambiamo mira! Investiamo nella Pace, non nelle armi”. A chi aderisce è chiesto sia di verificare che il proprio istituto di credito non finanzi l’industria, il commercio e la ricerca militare, sia di fare pressione sul governo italiano perché attivi una moratoria sulla spesa militare e sistemi d’arma per almeno un anno, riconvertendo tale spesa in sanità, scuola, cultura, difesa dell’ambiente. L’iniziativa è stata diffusa il 9 luglio scorso, in occasione dei 30 anni della promulgazione della Legge 185/1990 che ha introdotto in Italia “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” anche grazie alle pressioni della società civile e dell’associazionismo laico e cattolico.

Tra i promotori di questa nuova Campagna c’è anche John Mpaliza, congolese, attivista per i diritti umani: «In questi anni – denuncia – ingenti risorse sono state investite nell’industria delle armi, le cui vittime nel mio Paese, ma anche in tanti altri, non si contano più. Ho saputo del rilancio di questa Campagna ed ho subito deciso di aderire».

Un granello che vuole fermare l’ingranaggio della paradossale domanda: si producono le armi perché esistono le guerre o si combattono le guerre perché esistono le armi?