Donne in carcere, condannate all’invisibilità

In Etiopia, Zambia, Brasile, Egitto: condizioni di vita pessime per le donne che scontano una pena e per i loro bimbi.

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 Dal Brasile alle Filippine, dall’Etiopia all’Egitto: sono oltre 700mila, le donne detenute nel mondo, in condizioni di disagio ed emarginazione. Malnutrite, violentate, a volte costrette a diventare madri in carcere, di loro si sa poco e in pochi alzano la voce in difesa dei loro diritti.

È Africa, ma lontana dagli stereotipi che tutti abbiamo in mente: l’Etiopia ha un tasso di crescita del Pil tra i più alti del mondo (+9,2% nel 2019); nonostante sperequazioni che rimangono forti, la redistribuzione della ricchezza ha fatto nascere negli ultimi anni una sorta di “classe media”, merce rara nel continente nero;  

Eppure, le immagini e il racconto pubblicati sull’Espresso del 27 dicembre scorso sono un pugno nello stomaco: “Etiopia, madri all’inferno”, questo il titolo del bel reportage di Giuseppe Catozzella, ci racconta la vita delle detenute della prigione di Adwa e dei loro figli piccoli.

Nel carcere ci sono elettricità e acqua corrente un giorno alla settimana, i bagni sono fatiscenti, il dormitorio è uno stanzone con assi di legno al posto dei letti, l’alimentazione consiste in una porzione quotidiana di injera (pane molle) e shirò (una salsa).

Ovvio che le donne siano denutrite e i bambini continuamente ammalati, e inutile dire che un medico o un maestro sono miraggi. Come se tutto questo non bastasse, le violenze sessuali ai danni delle recluse sono all’ordine del giorno.

Nelle carceri dello Zambia

Purtroppo non è detto che la situazione etiope sia la peggiore in giro per l’Africa o per il mondo. È probabile anzi che la democrazia che Ahmed ha faticosamente cercato di costruendo abbia consentito alla stampa di raccontare ciò che in altri Paesi è tenuto sotto silenzio.

Qualcosa però trapela, grazie soprattutto a coraggiose Ong, non di rado collegate al mondo cattolico. È il caso dello Zambia, nelle cui carceri opera da anni il Centro laici italiani per le missioni (Celim), associazione laica legata all’Arcidiocesi di Milano, in collaborazione con la Caritas locale.

Secondo una classifica del 2019 della rivista statunitense Forbes, le carceri dello Zambia sono le peggiori dell’Africa, superate a livello mondiale solo da Haiti, Filippine ed El Salvador.

Uno dei criteri per stilare questa graduatoria è il rapporto tra detenuti effettivi e posti disponibili, che per il Paese africano è mediamente di tre a uno.

Un dramma nel dramma è quello delle donne detenute: in un contesto in cui i reclusi muoiono per mancanza di acqua, cibo e cure, spiegano gli operatori del Celim «i bisogni delle donne e dei bambini non vengono adeguatamente affrontati.

Le donne incinte non ricevono trattamenti dedicati né un’alimentazione adeguata alla loro condizione e quelle che hanno figli non beneficiano di nessuna attenzione particolare».

Per fortuna, c’è spazio per la speranza: con i suoi progetti di cooperazione, per esempio, il Celim cerca di migliorare le condizioni igienico sanitarie dei detenuti e, in particolare, delle detenute e dei loro bambini.

Nella prigione di Mazabuka, una delle peggiori del Paese, è stata realizzata una clinica, mentre con un altro progetto nato durante la pandemia di Covid si è riusciti a dare una formazione professionale ai detenuti nell’ambito della sartoria, con una produzione di mascherine in tela esportate anche in Italia.

In Kenya, altro Paese al bivio tra rafforzamento della democrazia e ritorno all’instabilità, la Comunità di Sant’Egidio è legata da una lunga amicizia con le detenute del carcere femminile di Nakuru. Sono più di 200 e molte di loro scontano la pena con i propri figli.

Per migliorare le condizioni igienico sanitarie del carcere, la Comunità ha donato due anni fa una cisterna per l’acqua e ha promosso un miglioramento nelle condizioni di vita delle detenute.

Violenza di genere

Ma quante sono le donne detenute nelle carceri del mondo? Secondo le Nazioni Unite poco più di 700mila, ovvero circa il 5% della popolazione carceraria, ma si tratta di cifre spannometriche perché molti Paesi non forniscono dati affidabili (a partire dal gigante cinese).

Sempre secondo vari report dell’ONU, la maggior parte delle donne passa anni in custodia cautelare o in carcere per reati minori, piccoli crimini legati alla droga, episodi di autodifesa nei confronti della violenza di genere e, a seconda delle legislazioni dei vari Paesi, casi di aborto o attivismo politico.

Ovviamente la pandemia non ha migliorato la situazione: un aspetto particolarmente problematico sono le conseguenze del blocco alle visite di parenti e volontari per prevenire i contagi. Nei contesti più degradati non poter ricevere visite significa per i detenuti mancanza di cibo, medicine, abiti e prodotti per l’igiene personale e, per le donne, per il ciclo mestruale.

In realtà il vero problema non sono le visite ma il sovraffollamento, che moltiplica esponenzialmente i contagi: la Thailandia detiene circa 125mila persone in più rispetto alla normale capienza; il carcere più grande della Cambogia contiene cinque volte più persone della sua capacità massima; mentre nelle Filippine, che come dicevamo detengono il record mondiale, il sovraffollamento delle carceri ha raggiunto il 534% nel marzo 2020, in piena pandemia. Senza contare che la totale chiusura dei penitenziari al mondo esterno aumenta la possibilità che atti di tortura, violenze e abusi restino ignoti e dunque impuniti.

Maternità in prigione

Un caso in cui il lavoro di media indipendenti e operatori umanitari ha rotto il silenzio è quello del Brasile. Qui i tribunali continuano a ignorare una misura adottata dalla Corte Suprema nel 2018 che prevederebbe gli arresti domiciliari per donne incinte e madri di neonati: così, nel Paese di Bolsonaro sono almeno tremila le donne che passano in carcere un momento chiave della loro vita, la maternità, e non dovrebbero essere lì.

Oltretutto, come ha rivelato il giornale di inchieste The Intercept Brasil, la maggior parte delle donne che si trovano in prigione ha commesso reati che non prevedevano l’uso della violenza e, a dimostrazione di un funzionamento su base etnica della giustizia, il 62% di loro sono nere.

A proposito di uso politico della giustizia, anche quando si parla di donne, il tema è particolarmente sentito in Medio Oriente, dove dall’Egitto alla Tunisia, dalla Siria all’Iran, sono molte le società civili in fibrillazione contro le autorità governative.

Nonostante migliaia di detenute siano state liberate con la condizionale negli ultimi mesi per ridurre il sovraffollamento, quelle considerate prigioniere politiche sono rimaste dietro le sbarre.

Un esempio per tutti: lo scorso luglio due donne egiziane sono state condannate a due anni di prigione per aver “violato i valori familiari” su TikTok.

E non si pensi che la drammatica condizione delle donne nelle carceri sia uno specifico dei Paesi del Sud del mondo.

Il 13 gennaio scorso, una settimana prima della fine dell’era-Trump, è stata eseguita la condanna a morte di Lisa Montgomery, prima donna detenuta nelle carceri federali ad essere uccisa dal “boia di Stato” da 70 anni a questa parte.

(Questo pezzo è stato pubblicato sul numero di marzo 2021 di Popoli e Missione. La foto è tratta dal sito delle Nazioni Unite).