“L’impatto della crisi ad Haiti è trasversale, la società civile tutta è vittima della situazione, il 20/30% della forza lavoro emigra e la resistenza è molto penalizzata”.
Eppure la fiducia nel futuro non è morta: “siamo nei caraibi, Haiti è l’unica realtà con una storia preziosa di rivoluzione degli schiavi alle spalle”.
E questa resilienza consente di lasciare spazio ad una futura speranza concreta e collettiva.
A parlarne, al festival della missione, è Jetry Dumont, giornalista haitiano testimone diretto della guerra e della violenza delle gang che tengono in ostaggio un popolo.
Fame, crollo del sistema agricolo e militarizzazione rendono l’isola caraibica altamente insicura.
Eppure, “con il tempo, con il coinvolgimento della gente e la passione troveremo una soluzione”, dice Dumont, intervistato da Greta Cristini.
È l’Afghanistan l’altro Paese in balia di una trappola mortale, quella dei talebani: “vi chiedo di non dimenticare la situazione afghana perché quando una parte di mondo si ammala, anche la parte restante si ammala”.
Così ha spiegato Zahara Joya, giornalista afghana che lavora da Londra e coordina una redazione di donne.
“Nel mio Paese c’è una situazione dura: un gruppo di uomini al potere ha completamente rimosso le donne”, ha detto. Il suo è un giornalismo indipendente, realizzato in rete. E lei dice “l’istruzione è la chiave della libertà”.
Tuttavia le donne in questa fase, se vogliono studiare, hanno una sola chance: le madrasse, le scuole islamiche.
Nel corso del dibattito Francesca Sibani di Internazionale ha specificato quanto sia importante dare spazio anche in occidente alle voci del “majority world”, il mondo della maggioranza.
Ossia quello che un tempo era definito Resto del mondo e oggi chiamiamo impropriamente sud del mondo.
Lo sguardo dovrebbe restare quello dei testimoni che lo abitano.
La realtà offerta dal giornalismo dei Paesi in guerra, sta a testimoniare che raccontare dal di dentro i fatti, con uno sguardo non occidentocentrico è ancora possibile.