In Niger basta armi, aprire cantieri sociali con i poveri

Padre Mauro Armanino indica una strada percorribile, ben oltre quella del G5 Sahel.

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«L’ultima tentazione consiste nel credere che non ci sia più niente da fare. Il mondo, l’Africa, la società e il Niger sono così e basta. Magari l’ha voluto Dio o se non l’ha voluto lui, lo ha almeno permesso».

Padre Mauro Armanino, missionario della Società Missioni Africane in Niger, confratello di Gigi Maccalli parla della scoraggiante visione che prevale rispetto al continente africano.

«E’ la tentazione più subdola», dice, perché non incoraggia il cambiamento.

Persino in uno “Stato fallito” o mai nato, come quello del Niger, diventato crocevia di migranti e trafficanti, la svolta è possibile, a patto che sia cercata e voluta. Che sia una scelta politica saggia.

«Il primo passo – ha spiegato di recente Armanino a Vatican News – è quello mentale e cioè ricreare luoghi e spazi dove la politica va intesa come riprogettazione e ricostruzione di un altro immaginario sociale. Un modo per ricominciare attraverso cantieri sociali con i poveri, con i giovani, con le donne che sono sostanzialmente escluse da tutti questi processi. Non ci sarà la pace senza il coinvolgimento di queste realtà».

Proprio in Niger si è tenuto di recente il vertice G5 Sahel: Ciad, Niger, Mauritania, Burkina Faso e Francia, con il presidente Emmanuel Macron in testa, si sono riuniti per parlare di terrorismo nell’area. E di come arginarlo con le armi.

Ma, come dice Armanino, il terrorismo si radica laddove lo Stato latita e i popoli sono abbandonati a sè stessi.

«Carestie, guerre, gruppi armati, contadini nel quotidiano, donne in lista d’attesa, giovani derubati del verbo coniugato al futuro, sindacati come soprammobili del potere, partiti tenuti in ostaggio»: per Armanino sono questi i veri virus del Sahel.

Sono le storture indotte nella regione del deserto, compresa tra Ciad, Burkina Faso, Niger, Benin.

Il Sahel, dice Armanino «è ostaggio di politiche interne repressive e di forze militari internazionali, anzitutto Francia e Usa, che hanno le loro truppe nel deserto». E la «tentazione più subdola» è pensare che non ci sia via d’uscita.

Padre Mauro racconta la storia di Patrick originario dalla Repubblica Democratica del Congo, partito nel 2005 dal suo Paese e adesso in Niger, in attesa di rimpatrio. La sua somiglia ad una Odissea. Ha trascorso quindici anni in Algeria, poi ha cercato di attraversare il mare per raggiungere l’Europa.

«Arrestato, espulso e deportato si trova adesso nella capitale nigerina, ospite dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, da tre mesi in attesa di rimpatrio. Non rimpiange il vissuto e afferma la ferma volontà di ‘ricostruirsi’ dopo tutto questo tempo», racconta.

È da qui che bisogna ripartire: da quelli che hanno provato a compiere il viaggio, che non ci sono riusciti o che non sono ancora partiti. Da coloro che, ancora giovani, e forti del loro coraggio, chiedono una chance in più per tornare a vivere con dignità.

(Foto in apertura: crediti Centre-for-Humanitarian-Dialogue-projet-médiation-agro-pastorale).