Il ‘Basaglia d’Africa’ missionario finalista dell’Aurora Prize

Facebooktwitterlinkedinmail

Gregoire Ahongbonon, l’ex gommista diventato il missionario del disagio psichico in Africa; l’uomo che cura con la sola forza della fede gli ammalati di mente rifiutati dalle famiglie in Benin, (ospite anche al convegno di Missio a Sacrofano nel 2019) continua a far parlare di sè.

Gregoire è stato candidato al premio Aurora humanitarian award del 2021, dopo aver vinto un altro importante riconoscimento nel 2020.

La premessa è che nulla di ciò che lui fa è frutto del suo potere personale.  «Cela me dépasse», ripete Gregoire, che ha aperto una fondazione legata ai camilliani e collabora con i missionari della Società Missioni Africane, in una intervista rilasciata qualche anno fa a Popoli e Missione.

«Tutto questo travalica la mia persona», dice. Perché viene da Dio.

Sorride mentre ricorda gli esordi della missione con gli ammalati di mente in Africa, tra Benin, Togo, Costa d’Avorio e Burkina Faso. 

Gregoire Ahongbonon, 67 anni, del Benin, occhi intensi, mani forti e callose, è l’uomo che sussurrava agli ammalati. E li guarisce, ma il segreto non c’è. La terapia è restare umani e avere fede.

I suoi ammalati sono quelli che l’Africa rifiuta: «persone affette da schizofrenia o bipolarismo, depressione o disturbi della personalità. Considerate possedute dalle forze demoniache e perciò emarginate».

Trattate come bestie. «Una volta vedemmo una donna inchiodata mani e piedi al terreno come Cristo in croce…».

Gregoire mostra le foto che conserva nel telefonino. Una donna legata con una catena di ferro ai piedi.

Gregoire una catena del genere la porta sempre con sé. Per gli scettici.

E la tira fuori da una sua valigetta nera. Ce la mostra. «Le famiglie hanno paura di questi malati: li legano, li nascondono, li maltrattano, se ne vergognano. Li tengono nei campi, non in casa».

Nel 1971 Gregoire emigra in Costa d’Avorio dove va a riparare pneumatici. Conosce fortuna e miseria. Ben presto scopre che il suo dono è riuscire a “comunicare” sottilmente con gli ammalati, ripristinando piano piano in loro il senso dell’umano. La prima cosa che fa è abbracciarli e sussurrare parole rassicuranti.

«Poi li lavo, li vesto. Do loro un piatto caldo da mangiare». Più volte ripete: «Non sono un guaritore e non sono neanche un medico. Non ho mai studiato medicina». E allora cos’è? «Se ci sono riuscito è solo perché ho intravisto in loro Gesù Cristo.

E’ Dio che agisce in me e io in loro». Racconta di essere precipitato nella miseria più nera molti anni fa: «Ho perduto tutto e a quel punto ho pensato addirittura di suicidarmi. Avevo 27 anni, è stata una durissima prova per me».

Confessa: «Anch’io all’inizio avevo paura. Ma a forza di guardarli ho capito che è Gesù stesso che soffre. Così ho iniziato a incontrarli. Io e mia moglie cucinavamo in casa e portavamo loro acqua e cibo». Piano piano trovano una sede, che inizialmente è la bouvette di un ospedale.

Spesso sono i parenti stessi a chiamarli: «Ricordo una donna ammalata che aveva marito e figli, ma il marito l’aveva ripudiata e lei viveva nei campi, nuda e legata. L’ho lavata, vestita, accolta». Le foto che ci mostra subito dopo sono quelle della stessa donna miracolosamente guarita.

E ritornata a casa dopo un periodo di cura presso il Centro che nel frattempo Gregoire riesce ad aprire con l’aiuto della moglie e della Chiesa e che oggi è l’Associazione Saint Camille a Bouaké in Costa d’Avorio, sorta nel 1983.

Ma qual è esattamente il metodo che usa?  Si tratta di un mix di farmaci, terapia psichiatrica e riabilitazione sociale.

I pazienti, cioè, non assumono mai una dose di medicinali tale da renderli sedati, incoscienti o con un basso livello di attenzione e capacità di azione. Tutt’altro. La terapia cruciale è la partecipazione attiva del malato alla gestione del Centro.

Addirittura i Centri del Saint Camille sono affidati agli ex pazienti. La loro «riabilitazione è tale e il processo di responsabilizzazione è così elevato, che non esiste più il malato».

Ossia, la malattia in alcuni casi è cronica – come la schizofrenia – ma tenuta assolutamente sotto controllo. Gli ex pazienti possono diventare così infermieri, inservienti, volontari e qualche volta direttori del Centro.

Una rivoluzione sociale che in Africa ha una valenza enorme. Ma ce l’ha anche per gli standard europei o americani: «Il successo del trattamento nel San Camillo è dell’80% – precisa Benoit – c’è un 20% più difficile da trattare. Ma questo accade in Africa come in Canada o Europa.

E’ nel 2004 che Gregoire passa dalla Costa d’Avorio al Benin: «Sentivo una voce dentro che mi diceva vai al Nord. Sono arrivato a casa e ho detto a mia moglie: “Io devo partire!”.

Ho aperto la portiera della macchina e ho fatto centinaia di chilometri». E così l’attività si è espansa. Oggi i Centri del Saint Camille sono una sessantina in tutta l’Africa della costa orientale.

Nel 2007 Gregoire partecipò a numerosi incontri per discutere delle migliori pratiche consolidate nel campo della salute mentale con eminenti psichiatri dell’Università di New York e del Belleview Hospital a New York.

Grazie all’azione della Fondazione Saint Camille che raccoglie donazioni a livello internazionale, l’esperienza della Costa d’Avorio è stata presentata nel settembre 2006 alla riunione annuale della Clinton Global Initiative che sostiene progetti umanitari e di sviluppo umano nel mondo.