Scalabriniani a Tijuana: sulla frontiera, nella città dei migranti

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Con oltre 90mila persone che attraversano il confine ogni giorno per andare a lavorare a San Diego, Tijuana è il più grande valico di frontiera tra gli Stati Uniti e il Messico.

Ma questa città, la principale nello Stato messicano della Bassa California col suo milione e 600mila abitanti, è anche molto altro.

E’ la città dello sballo e del divertimento, dell’alcol a buon prezzo e delle donne, la ciudad de los pecadores l’hanno ribattezzata gli stessi messicani.

Ma, allo stesso tempo, Tijuana è anche la città della speranza e della disperazione.

Da tutto il Sud America, migliaia di migranti arrivano qui ogni giorno, inseguendo il sogno americano. Scappano dal Brasile, dal Guatemala, dal Venezuela, da El Salvador, da Haiti.

Spesso arrivano in vere e proprie carovane umane composte anche da due o tremila persone, per avere qualche possibilità in più di sfuggire alle violenze e ai ladrocini delle gang che incontrano lungo il viaggio.

Nei Paesi dell’America Centrale i migranti ricevono un foglio che permette loro il transito, ma, una volta giunti in Messico si scontrano con una burocrazia farraginosa che limita loro gli spostamenti e li espone alla corruzione, perché da anni le autorità messicane controllano il traffico dei migranti per conto degli Stati Uniti.

«Credo che il governo messicano sia stato costretto a collaborare con l’amministrazione Trump per paura di minacce finanziarie – spiega padre Pat Murphy, Scalabriniano statunitense, dal 2013 direttore della Casa del Migrante di Tijuana -.

Ufficialmente le autorità accolgono i deportati al loro ritorno in patria, ma offrono pochissima o nessuna assistenza. In città ci sono oltre 30 rifugi per migranti e deportati, ma nessuno riceve qualche forma di sostegno finanziario dal governo.

Come se non bastasse, sia la polizia locale che la Guardia Nazionale abusano dei migranti in ogni maniera, cercando di estorcere loro quanti più soldi è possibile».

Nella Casa del Migrante di Tijuana, nata da un’intuizione di padre Roberto Simionato nel 1985, viene offerta ospitalità fino a 40 giorni; un collocamento lavorativo tramite l’ufficio per l’impiego della stessa congregazione; servizi di supporto legale e psicologico; tre pasti al giorno; assistenza medica;

un servizio di assistenza all’infanzia; servizi spirituali e di orientamento; gruppi di supporto per alcolisti e persone con problemi di dipendenza; corsi gratuiti presso il “Centro di Formazione G. B. Scalabrini” (inglese, spagnolo, meccanica, fotografia, corsi per elettricisti, barbieri, estetiste e saldatori).

Quando poi qualcuno lascia la struttura magari per affittare un appartamento, riceve una tessera che gli permette di rientrare nella casa per mangiare, prendere cibo da asporto e di usufruire dei servizi per i minori.

Oltre 270mila le persone accolte dalla sua fondazione.

«Quando sono arrivato nel 2013, il 95% degli ospiti della nostra struttura era composto da uomini deportati. Dal 2016 al 2024 abbiamo accolto soprattutto gruppi familiari, ma negli ultimi mesi il centro è tornato ad essere occupato nella quasi totalità da persone deportate dagli Stati Uniti – aggiunge padre Pat -.

L’amministrazione Trump ne ha rimpatriati molti a Tijuana, ma la stragrande maggioranza è trasferita nel Chiapas, nel Messico meridionale, lo Stato più povero del Messico, dove essendo oltretutto così lontani dal confine settentrionale, le persone ci pensano due volte prima di rimettersi in viaggio verso il Nord».

Fedeli al carisma del loro fondatore, Giovanni Battista Scalabrini, i suoi religiosi cercano di “Farsi migranti con i migranti”, offrono in tutto il mondo servizi di accoglienza e ospitalità e si battono per la promozione ed il riconoscimento dei loro diritti umani.

Alla prima Casa del Migrante aperta nel 1985 a Tijuana, sono seguite quelle di Nuevo Laredo, Tapachula, Guatemala, Tecún Umán, El Salvador, Guadalajara e quelle realizzate in un’altra quarantina di città in 39 nazioni del mondo.

«La criminalità organizzata controlla praticamente tutto in Messico – spiega padre Pat – ed il governo non riesce a trovare soluzioni che riescano a fronteggiarla. Violenza e sparizioni di persone sono all’ordine del giorno, la corruzione è una realtà sistemica e le forze di polizia lasciano la gente con la sensazione di non potersi fidare di nessuno. Ad ogni modo non possiamo restare a guardare e dare la colpa di tutto a Trump – chiude il religioso -.

La Chiesa deve continuare a farsi portavoce degli ultimi e in questo frangente, in cui così tanti migranti sono riportati a casa, ci dobbiamo sforzare di essere più creativi, cercare soluzioni e avviare nuovi programmi di accoglienza, prendendo ispirazione dagli stessi migranti, che non si arrendono mai e non perdono mai la speranza».