Associazioni e leader di comunità indigene sono pronti a partecipare in vari modi alla Cop30 del prossimo novembre. Se il Brasile di Lula vuole guidare il Sud globale nella transizione ecologica, deve «smettere di svendere la foresta».
In prossimità della COP30, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si terrà a novembre a Belém, nello Stato amazzonico brasiliano del Pará, l’entusiasmo della società civile latinoamericana è palpabile. Ma a fianco dell’entusiasmo cresce anche la preoccupazione.
A incendiare il dibattito è stata la recente decisione del governo brasiliano di aggiudicare 19 nuovi bacini petroliferi nella regione amazzonica a due consorzi energetici che includono colossi come Chevron, ExxonMobil, Petrobras e la China National Offshore Oil Corporation-Cnooc.
Una mossa che molti considerano una clamorosa contraddizione rispetto all’impegno climatico sbandierato dal presidente Luiz Inácio Lula da Silva.
Belém sarà la prima città amazzonica ad ospitare una COP e, proprio per questo, rappresenta un simbolo potente: è il cuore geografico e spirituale di quella che papa Francesco ha definito “la madre Terra ferita”, al centro del suo Querida Amazonìa.
Qui si giocherà una partita globale, ma i veri protagonisti saranno i popoli che abitano l’Amazzonia che per primi subiscono gli effetti del cambiamento climatico e dello sfruttamento indiscriminato del territorio.
Si prevede che alla COP30 arriveranno oltre 70mila persone tra delegati, osservatori, giornalisti e attivisti.
Ma l’onda sempre più visibile è quella delle popolazioni indigene che si stanno organizzando per partecipare in massa. L’Associazione delle Organizzazioni Indigene dell’Amazzonia Brasiliana-Coiab ha già annunciato un «accampamento permanente» a Belém, con delegazioni provenienti da tutta la Pan-Amazzonia – dal Brasile alla Bolivia, dal Perù alla Colombia. L’obiettivo è «mostrare al mondo che l’Amazzonia ha voce e volto indigeni».

«Non possiamo più essere spettatori mentre si decide il nostro futuro – dice Sonia Guajajara, ministra dei Popoli Indigeni del Brasile –. Questa COP deve ascoltare chi difende la foresta con il proprio corpo».
I leader indigeni denunciano la violazione del diritto al consenso libero, previo e informato previsto dalla Convenzione 169 dell’ILO, ignorato nel processo di assegnazione dei nuovi blocchi petroliferi.
«Ci hanno esclusi – afferma con amarezza José Macuxi, della Rete dei Popoli Indigeni del Nordest e del Sud del Brasile –. Ma a Belém ci faremo sentire».
Non solo indigeni.
Le comunità quilombolas – discendenti degli schiavi africani fuggiti dalle piantagioni coloniali – stanno organizzando la loro partecipazione alla COP attraverso il Coordinamento Nazionale delle Comunità Nere Rurali Quilombolas (Conaq).
In tutto il Brasile, oltre 6.300 comunità rivendicano diritti territoriali spesso minacciati da grandi opere e deforestazione. «Le nostre terre sono barriere naturali contro il cambiamento climatico» afferma Lucimara da Silva, leader quilombola dello Stato del Maranhão, nel Nord est del Brasile.
«Siamo custodi di un sapere che il mondo ha dimenticato».
Decine di ONG – brasiliane e internazionali – hanno lanciato il coordinamento Rumo à COP30 (Verso la COP30), una piattaforma che promuove iniziative, dibattiti e mobilitazioni.
Il collettivo Fridays for Future Brasil ha annunciato una “Carovana per la Giustizia Climatica” che partirà in ottobre da San Paolo e attraverserà 15 Stati per concludersi a Belém.
Amnesty International, Greenpeace e il WWF stanno pianificando eventi paralleli nei povoados, come si chiamano i villaggi nel gigante sudamericano, a rischio ambientale.
Il timore diffuso è che la COP diventi solo una passerella politica, mentre nel sottosuolo si trivella e in superficie si muore. «Non possiamo più permettere il greenwashing – dice la coordinatrice di Amazon Watch in Brasile, Ana Paula Vargas –.
Se il Brasile vuole guidare il Sud globale nella transizione ecologica, deve smettere di svendere la foresta».
Il presidente Lula si è detto orgoglioso di ospitare la COP30 a Belém e ha promesso di presentare il Brasile come «un esempio per il mondo nella lotta contro il cambiamento climatico».
Ma la recente asta dei giacimenti petroliferi lo ha messo in difficoltà anche con la sua base elettorale più progressista. Il presidente giustifica la decisione in nome dello «sviluppo sostenibile con sovranità nazionale», ma molti ricordano che tra i bacini assegnati c’è anche quello dell’estuario del Rio delle Amazzoni, un ecosistema marino-forestale tra i più ricchi e fragili del pianeta Terra.
Persino Marina Silva, ministra dell’Ambiente, ha espresso perplessità. «Non si può parlare di Amazzonia viva, mentre si spinge per nuove esplorazioni fossili» ha dichiarato in un’intervista alla Folha de São Paulo.
Il governo tenta ora una difficile mediazione, ma il malcontento nella base sociale si allarga. Nel cuore di Belém, a pochi chilometri dal centro ufficiale della COP30, sorgerà un’altra conferenza: la Cúpula dos Povos, ovvero il Vertice dei Popoli, promossa dai movimenti sociali di tutta l’America Latina.
Si tratterà di un evento parallelo, autogestito, con assemblee pubbliche, concerti, cerimonie tradizionali e spazi di scambio tra esperienze di resistenza e resilienza.
L’obiettivo è chiaro: rendere visibile ciò che spesso resta invisibile nei grandi forum internazionali. «Non saremo più comparse nei documenti finali scritti a porte chiuse – dice Marcos Apurinã, portavoce della Coordinadora de las Organizaciones Indígenas de la Cuenca Amazónica –.
Siamo soggetti politici, non decorazioni esotiche».
(Una versione di questo articolo è stata pubblicata sul numero di settembre-ottobre di Popoli e Missione)

