Viaggio in Giordania, dove l’accoglienza è sicura

Il Paese ospita oggi migliaia di profughi siriani e difende in ogni modo un instabile equilibrio, minacciato da grandi tensioni interne.

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Oggi la provincia di Karak, in Giordania, è per i profughi siriani quello che la regione di Moab fu per Elimèlech e la sua famiglia ai tempi di Rut e Noemi: una terra dove accorrere e trovare riparo.

Fu così, ai tempi narrati nel primo Libro dei Re, per un uomo di Betlemme, che, costretto ad emigrare per una grave carestia abbattutasi nella Giudea, raggiunse la campagna di Moab (la stessa terra che oggi si chiama Karak e si trova in Giordania) e vi si stabilì.

Ed è stato così anche negli ultimi anni per migliaia di profughi siriani che dal 2011 sono stati costretti a lasciare la propria patria ed hanno trovato accoglienza proprio qui, nel Sud della Giordania.

A descrivere in questo modo la provincia di Karak è suor Adele Brambilla, missionaria comboniana coordinatrice sanitaria dell’ospedale gestito dalla sua congregazione, che sorge «in quella che è la valle di Moab, cioè la terra di Rut e Noemi».

Ma non solo: «Questa zona fu attraversata anche dal popolo ebreo, per arrivare al Monte Nebo, dove Mosè è morto, prima di entrare nella Terra promessa. Siamo circa a 150 chilometri a Sud di Amman, la capitale giordana, in una città che conta circa 30mila abitanti, capoluogo di una provincia di circa 300mila persone, che è la più povera del Paese».

Quella che un tempo fu la valle di Moab, e che oggi è la provincia di Karak, vede una presenza multiculturale: qui vivono giordani di diverse etnie (come i beduini e i gorani, discendenti di un popolo africano trasferitosi sulle rive del Mar Morto qualche centinaio di anni fa), ma anche lavoratori stranieri, come egiziani, srilankesi, pakistani e curdi; poi ci sono i rifugiati, arrivati dalla Palestina, dall’Iraq e dalla Siria.

La Giordania, infatti, è un Paese mediorientale che sta vivendo da qualche decennio l’accoglienza dei profughi: ha cominciato con i palestinesi fuggiti dalla loro terra con la fondazione dello Stato d’Israele nel 1948 ed ha poi proseguito in questi ultimi anni con l’arrivo degli iracheni e dei siriani che scampavano alla guerra e alle violenze dello Stato Islamico.

Oggi, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), la Giordania ospita più di un milione di rifugiati.

Nello scacchiere mediorientale, il regno hashemita sta difendendo in tutti i modi il proprio instabile equilibrio, minacciato da grandi tensioni interne dovute a molti fattori, tra cui la presenza di un milione di profughi di diverse nazionalità.

Nelle difficoltà che sta attraversando, resta comunque il Paese mediorientale dove l’accoglienza non solo non è disattesa, ma è accompagnata anche da un’attenzione nient’affatto scontata verso chi scappa dalle guerre.

Un esempio su tutti è la campagna di vaccinazione contro il Covid-19 per chi vive nei campi profughi, partita sin dalle prime settimane di quest’anno: in collaborazione con l’Unhcr, palestinesi, iracheni e siriani sono stati immunizzati e hanno fatto della Giordania la prima nazione ad aver garantito ai rifugiati questo diritto alla salute.

La popolazione giordana è, in genere, accogliente e ben disposta nei confronti dei profughi: nonostante i grandi numeri, «la gente – spiega suor Brambilla – è molto accogliente e paziente».

Anche se purtroppo le conseguenze che la pandemia sta generando in Giordania minano la precaria stabilità che ha caratterizzato il Paese in questi anni.

Come rileva il ricercatore universitario Paolo Maggiolini in un suo focus per l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi): «E’ evidente che, nonostante gli aiuti internazionali di cui il regno beneficia per l’attività di accoglienza e cura (dei profughi, ndr), la loro presenza ha rappresentato e continua a essere una difficile sfida per il “sistema Paese” a fronte di risorse sempre più limitate.

In questo contesto nazionale, la presenza delle missionarie comboniane nella regione di Karak vuole essere «un segno di testimonianza evangelica e di ponte, di dialogo interreligioso fatto di quotidianità.

Nel nostro ospedale – racconta suor Brambilla – abbiamo circa 80 dipendenti e la maggioranza è musulmana: condividiamo con loro la nostra missione, come dice papa Francesco nel documento sulla “Fratellanza umana”, cioè: quello che fa il dialogo di vita fa anche la condivisione del lavoro e delle istanze sociali che più ci interpellano.

Siamo presenti in questo mondo attraverso il nostro specifico ministero che è la cura, dando particolare attenzione ai più poveri e agli esclusi».

 L’Ospedale italiano di Karak

In questa struttura, che è un porto sicuro per tutti i bisognosi di cure, la specificità di interventi è rivolta a neo-mamme, donne in gravidanza e bambini con particolari emergenze.

Con l’arrivo dei profughi siriani, «l’ospedale ha aperto le sue porte, accogliendoli. Lo facciamo con l’aiuto di alcune organizzazioni caritative – racconta la missionaria – e in particolare anche della Conferenza episcopale italiana che ci ha aiutato molto con il sostegno dell’8 per mille. Tenere la struttura aperta, aggiornata, funzionante richiede un certo impiego di fondi che l’ospedale in sé non può permettersi perché è un’istituzione no profit, quindi non può generare reddito».

Quest’ Ospedale nacque nel 1935 grazie all’Associazione nazionale per soccorrere i missionari italiani (Ansmi), il cui presidente, l’archeologo Ernesto Schiaparelli, intuì l’importanza di fondare opere sociali come testimonianza evangelica e affidarle a congregazioni religiose; fu da subito consegnato alle missionarie comboniane che da oltre 80 anni lo gestiscono garantendone lo spirito per cui è nato, cioè l’accoglienza e la cura dei più poveri e degli esclusi.

Oggi la struttura conta 50 posti letto ed è guidata da suor Alessandra Fumagalli, che ne è l’amministratrice e la legale rappresentante.

Dal 2015 ha preso il via la collaborazione con l’Ospedale pediatrico Bambino Gesù: «Abbiamo organizzato un centro di neuroriabilitazione per i piccoli cerebrolesi con patologie neurologiche. Fino a prima dello scoppio della pandemia – racconta suor Adele – il Bambino Gesù ha inviato qui i suoi medici per un totale di 25 missioni.

Abbiamo organizzato un’unità di neuroriabilitazione che adesso segue più di 40 piccoli pazienti. Questa collaborazione è ben vista anche da tutta la società locale: è una bellissima iniziativa gratuita che lascia veramente un segno, perché è un’attenzione particolare agli ultimi che, diversamente, non avrebbero modo di intraprendere un percorso riabilitativo».

(Una versione completa di questo articolo è stata pubblicata sul numero di luglio-agosto di Popoli e Missione).