L’insostenibile leggerezza della guerra

Dall’Afghanistan alla Nigeria al conflitto in Ucraina, sono 60 le guerre a bassa o alta intensità.

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Uno spaccato di quella “terza mondiale a pezzi” che da tempo la visione profetica di papa Francesco denuncia.

É una vecchia storia: l’ultima crisi cancella le altre dalla quasi totalità dell’informazione (quasi, perché le eccezioni ci sono, a partire dalla stampa cattolica).

Ogni giornalista sa benissimo che non si combatte solo tra russi e ucraini, ciò nonostante sono “scomparse” dall’attenzione una sessantina di guerre che insanguinano soprattutto, ma non solo, l’Africa e il vicino e medio Oriente.

Secondo i rapporti della Caritas a fine 2021 i conflitti “ad alta intensità” nel mondo erano 22, sette in più rispetto all’anno precedente.

Con quello in Ucraina, prima catalogata “a bassa intensità”, si è arrivati a 23. Considerando anche le crisi croniche e le escalation violente quasi si triplica la cifra.

Secondo l’organizzazione non governativa Armed conflict location & event data project (Acled), specializzata nell’analisi e nella mappatura dei conflitti, quest’anno le guerre sono 59.

L’ ultima è quella in Ucraina, che a sua volta aveva visto la guerra civile incominciata nel 2014 scomparire dall’attenzione per otto anni, fino al febbraio scorso, quando le truppe russe sono entrate nel Paese.

L’anno scorso era stato l’Afganistan, con il ritiro delle truppe occidentali e la riconquista talebana del potere, a occupare per mesi le prime pagine dei giornali.

A leggerli oggi sembrerebbe tutto finito, ma si combatte anche ora – tra Talebani e il gruppo Panjshi che resiste loro – la guerra che dura dal 1978, con milioni di vittime, tra gruppi armati supportati dalle potenze straniere, prima i russi poi gli statunitensi e dai loro alleati.

Né la pace è tornata in Siria, in Iraq, nello Yemen, nello Sri Lanka, in Etiopia, dove il conflitto nel Tigrai si è esteso anche all’Amhara e all’Afar.

Tra le guerre “a bassa intensità”, endemiche con scontri non continui e periodi di accentuazione delle violenze, la più nota è certo quella tra israeliani e palestinesi, che si protrae da decenni con milioni di morti e senza che mai i negoziati abbiano ottenuto accordi risolutivi.

Quella meno conosciuta è forse nel Myanmar, dove dal 1948, quando l’allora Birmania ottenne l’indipendenza dall’Impero coloniale britannico, continua a causare vittime ogni anno. Solo nella prima metà del 2022 i morti sono stati quasi cinquemila.

E diverse migliaia di morti hanno causato quest’anno anche i conflitti tra Pakistan e India per la regione del Kashmir e quelli africani in Libia, in Sudan e in Sud Sudan, nella Repubblica Centroafricana, nella Repubblica Democratica del Congo, in Somalia, in Mozambico.

Ma il conto aumenta se stiamo alla definizione della Treccani, dove si legge che guerra è «conflitto aperto e dichiarato fra due o più stati, o in genere fra gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi condotto con l’impiego di mezzi militari».

La situazione più sanguinosa è quella in Nigeria dove alle violenze del gruppo islamista Boko Haram si è sommata una ribellione separatista nel Biafra.

Nel confinante Camerun, agli attacchi di Boko Haram si è aggiunto dal 2016 un conflitto civile che ha provocato oltre tremila morti, senza che nel mondo se ne sia parlato più di tanto, tra la minoranza anglofona e la maggioranza francofona, che esprime il governo e rifiuta la richiesta di una federazione a due Stati.

Mali, Ciad e Burkina Faso, nel Sahel, sono in balìa della violenza islamista che sta investendo anche Paesi costieri dell’Africa occidentale.

La Costa d’Avorio ha registrato ripetuti attacchi vicino al confine con il Burkina Faso e la minaccia incombe su Ghana, Benin e Togo.

Più a Nord-Ovest la pace è in bilico tra Algeria e Marocco, tra l’altro alle prese con irrisolti conflitti interni, l’una con le milizie islamiste, l’altro con l’annosa secessione del Fronte Polisario.

Di guerra si può parlare anche in Messico, con le violenze dei cartelli della droga contro le popolazioni civili e tra loro.

Né quelle citate esauriscono le crisi. Per fare solo altri due esempi in America, la situazione minaccia di degenerare in guerra palese ad Haiti e in Colombia, dove i ribelli delle Farc non hanno mai deposto le armi.

In sintesi, la “guerra mondiale a pezzi” della quale parla papa Francesco si va intensificando, portando il mondo sempre più vicino a una deflagrazione che le armi di distruzione di massa renderebbero infinitamente più devastante delle due guerre del secolo scorso.

Al tempo stesso nella situazione geopolitica generale, segnata dalla progressiva riduzione della rilevanza dell’Onu, all’accentuazione delle politiche di contrapposizione, con il correlato aumento delle spese militari, corrisponde l’arretramento di tutti i progetti di sviluppo sociale, di risanamento ambientale e di contenimento dei cambiamenti climatici, di contrasto ai fenomeni pandemici e di lotta alla fame.

Di schemi di guerra se ne leggono e se ne ascoltano ovunque.

Si spera che i “grandi” del mondo incominciano a dare ascolto, a partire dall’Assemblea generale dell’Onu di questo settembre, a quanti (soprattutto, ma non solo il papa) chiedono e indicano schemi di pace.