Tregua senza pace da Gerusalemme a Gaza

Anche un video del parroco di Gaza al webinar del 10 giugno, organizzato dal Cmd di Lucca e da altre istituzioni locali.

Facebooktwitterlinkedinmail

«La situazione qui nella Striscia di Gaza, per il momento, è tranquilla dopo la tregua. Nonostante ci siano tante chiacchiere, di chi vuole riprendere i combattimenti, ecc. sembra che la tregua regga per ora. Comunque la tregua non deve essere la condizione definitiva. Questa dovrebbe essere la pace: pace fondata sulla giustizia, come diceva Giovanni Paolo II».

Comincia così il video di padre Gabriel Romanelli, parroco latino di Gaza, argentino, missionario della famiglia religiosa del Verbo Incarnato.

Padre Gabriel ha inviato questa testimonianza ai partecipanti al webinar del 10 giugno scorso, dal titolo: “Israele-Palestina: tregua senza pace”, organizzato dal Centro missionario diocesano di Lucca e dalla Scuola per la Pace della Provincia, insieme ad altre istituzioni locali.

Qui il link al video: https://www.youtube.com/watch?v=x38bwllcYgU

Padre Romanelli ha descritto una situazione di vita quotidiana «del tutto speciale: noi viviamo in 350 chilometri quadrati, e siamo due milioni di persone. I cristiani, tutti insieme, sono 1077, di cui 133 cattolici latini.

La situazione è sempre difficile: la cosa più grave è che da più di 12 anni c’è un embargo molto forte su tutta la popolazione. Nessuno esce ed entra nella Striscia di Gaza: sono pochissimi quelli che possono farlo con alcuni permessi» rilasciati dalle autorità israeliane.

La guerra che ha infiammato la Striscia nello scorso mese è stata «durissima ed ha colpito tutti noi: non direttamente le strutture fisiche, nonostante ci siano stati anche dei danni pure qua in parrocchia; ma le conseguenze sulle persone, con danni esistenziali, morali; è stata veramente una tragedia: più di 200 morti, con 69 bambini.

Non si può dire che siano vittime collaterali o scudi umani! Sono civili, sono bambini! Dietro ogni bambino c’è una famiglia, dietro ogni famiglia c’è una tribù o clan, perché qui siamo in Medio Oriente e quindi dietro ogni bambino ci sono ferite aperte che devono essere curate al più presto».

Il missionario ha esortato all’urgenza della giustizia, che non può più attendere perché è l’unico modo per risanare queste ferite: «Bisogna lavorare molto per la giustizia tra i due popoli.

Occorre dare uno stato giuridico a queste persone: non ci dimentichiamo che sono due milioni nella Striscia di Gaza, non sono stranieri, sono in Palestina, in un territorio che non ha nessuno status canonico; ci sono altri due milioni di persone in Cisgiordania; e ancora mezzo milione a Gerusalemme Est che secondo le leggi internazionali è terra palestinese.

Quindi cosa facciamo con questi quattro milioni e mezzo di persone che abitano nella loro terra? E’ questo ciò che produce tante vittime e violenza da 73 anni».

Dell’origine di questo conflitto ha parlato suor Alicia Vacas, superiora delle missionarie comboniane per il Medio Oriente, da circa 20 anni a servizio di questa terra. Recentemente è stata insignita, dal Dipartimento di Stato USA, del Premio internazionale “Donna Coraggio 2021” per l’impegno nella difesa dei diritti umani e nella lotta alle disuguaglianze.

«Mi sorprende sempre – ha commentato la missionaria – che i riflettori internazionali si accendano quando partono i razzi dalla Striscia di Gaza e si spengano dopo l’ultimo missile, come se la storia fosse finita. A Gerusalemme sono mesi che cogliamo una situazione di crescente disagio, di tensioni, scontri, sopraffazioni», che poi diventano terreno favorevole per l’esplosione di incendi difficili da contenere.

Le scintille che hanno acceso gli scontri e la violenza dello scorso mese sono partite da Gerusalemme, con la sentenza di esproprio di abitazioni di famiglie palestinesi nel quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est; con il divieto ai musulmani di arrivare nella Città Santa per pregare insieme durante il Ramadan; con l’attacco dell’esercito israeliano sulla Spianata delle moschee.

Quest’ultima, ha spiegato suor Alicia, «è un’aggressione gravissima: forse non ci rendiamo conto del significato di un tale gesto, ma per molto meno (una passeggiata di Sharon sulla Spianata delle moschee, ndr) nel settembre del 2000 scoppiò la seconda Intifada.

Quando abbiamo visto la violenza usata in questo luogo iconico, abbiamo capito subito che stava per accadere qualcosa di grosso. E quella sera sono partiti i razzi di Hamas. 

Allora Israele ha risposto con i bombardamenti sulla Striscia. Ma da mesi chi vive qui vedeva il precipitare della situazione. Partito l’ultimo razzo di Hamas, sono stati spenti i riflettori, perché è iniziata la tregua».

E ha concluso: «Abbiamo la tregua, ma non la pace. E se non affrontiamo a livello internazionale queste situazioni che hanno generato violenza, e le altre questioni che restano sospese, prima o poi dovremo accendere di nuovo i riflettori perché ci saranno altri razzi che partiranno».

Anche Vincenzo Bellomo, arrivato in Terra Santa nel 2006 come missionario laico fidei donum della diocesi di Mazara del Vallo e oggi responsabile dei progetti sociali per l’Associazione Pro Terra Sancta Betlemme della Custodia dei frati francescani, ha descritto la situazione di anormalità quotidiana che si vive in Cisgiordania:

«I palestinesi hanno il desiderio di scoprire cosa sia la vita normale, ma non sanno cosa vuol dire prendere la macchina e camminare 20 chilometri senza incontrare un check point; e neppure sanno cosa vuol dire mandare i figli all’Università a 40 minuti da casa, senza essere obbligati a prendere un appartamento in affitto, poiché quando hai lezione non puoi permetterti di passare il check point ogni mattina. Qui siamo quasi abituati alla tragedia. Purtroppo le scintille che infiammano, noi le vediamo crescere mese dopo mese».

Bellomo ha invocato la «responsabilità della comunità internazionale, che poi è anche nostra: abbiamo il dovere di costruire la pace. Bisogna lottare per la giustizia e i diritti di tutti. A quel punto si può dialogare. Ma se non partiamo da questo, se non ci sta a cuore la democrazia in Israele e in Palestina, non possiamo camminare verso la pace.

C’è bisogno di una forte pressione della comunità internazionale e noi come mondo missionario, come comunità cattolica, come comunità politica, abbiamo una grande responsabilità, a costo di metterci la faccia, di rischiare. Però questa è l’unica strada che abbiamo, volendo bene a tutti, senza parteggiare. E quando vuoi bene a qualcuno, devi avere il coraggio di dirgli la verità».

Nella conclusione della sua video-testimonianza, dalla Striscia di Gaza padre Romanelli «ci ha dato i compiti a casa: trasformare gli incontri – ha commentato Bellomo – in progetti e fatti che possano raccontare giustizia, per poi diventare pace. Perché da quello bisogna partire».