La povertà che c’è dietro il Jihad in Africa

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Sono ragazzi che cercano lavoro, soldi, una stabilità economica ed una forte identità di gruppo. Fuggono dalla miseria e dall’anonimato.

Questo l’identikit dei giovani “combattenti” dei gruppi di matrice jihadista in Africa. Facilità di reclutamento in strada da parte di leader che si spartiscono potere e territorio.

Un lavoro. Un’occupazione. Un’alternativa più che valida alla strada e alla fame. Alla perdita di identità e a fonti di reddito precarie.

Il jihad, la “lotta armata”, la “militanza” all’interno di milizie di diversa provenienza in Africa, può essere considerata una occupazione come un’altra.

Solo molto più retribuita e sicura di quelle che si trovano alla giornata.

Cosa c’è dietro il reclutamento dei giovanissimi dei gruppi armati della variegata “galassia jihadista” in Africa Subsahariana, nel Sahel e nella regione dei Grandi Laghi? Un impiego ben pagato?

Una convinzione ideologica? Una esigenza dettata dalla povertà? Premesso che dare una sola risposta è insufficiente e molto riduttivo, è però certamente possibile scandagliare meglio le ragioni collegate alla mancanza di alternative occupazionali in queste regioni.

A dirlo, da sempre poco ascoltati (perché rinnovare la narrazione distorta della “guerra di religione” e dello scontro di civiltà è più in sintonia con la retorica occidentale) sono i missionari.

Ma anche i cooperanti, i giornalisti in loco, le agenzie delle Nazioni Unite e molti ricercatori che in questi ultimi anni hanno messo a punto dossier e studi sull’argomento.

«Anche se non era un lavoro degno, io avevo bisogno di denaro per me e per la mia famiglia», dice un giovane affiliato alla brigata Katiba Khalid Ibn Walid in Mali.

La testimonianza è raccolta dall’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza, centro di ricerca africano con diverse sedi, tra cui una a Pretoria.

Il documento si intitola “Mali’s young ‘jihadists”, giovani jihadisti in Mali. E il sottotitolo è: “stimolati dalla fede o dalle circostanze?”.

L’analisi mira a dimostrare che in moltissimi casi (non tutti certamente e non in tutte le regioni), dietro la manovalanza del cosiddetto jihad ci sono una serie di vantaggi allettanti per i combattenti. Ben altro rispetto ad una cieca convinzione ideologica.

«Giovani più disoccupazione è uguale a radicalizzazione? – si legge nel report – I dati raccolti confermano l’esistenza di un collegamento ampiamente accertato tra giovani disoccupati e coinvolgimento giovanile nei gruppi jihadisti.

Dimostrano inoltre che la situazione è molto più complessa di quanto appare. La disoccupazione è un fattore tra i tanti che includono povertà, difficoltà nel soddisfare bisogni primari e mancanza di prospettive».

«Li ho raggiunti per supportare la mia famiglia. Non avevo uno stipendio, ma loro mi hanno aiutato quando ne avevo bisogno», dice un altro ragazzino intervistato della brigata Ansar Dine a Timbuktu.

Avere un’entrata fissa mensile o settimanale è il sogno di tutti i giovani in Africa.

E la lotta armata dà questa opportunità. Senza dubbio a convincere i giovani c’è anche un fattore ideologico: quell’elemento che sembra garantire loro potere, sicurezza, armi e protezione.

Entrando nelle milizie si sentono garantiti, fanno parte integrante di un gruppo che considerano invincibile. E soprattutto trovano una identità.

Un motivo forte per far parte di una comunità.

«Con i video delle esecuzioni e i combattimenti di altri jihadisti io ho trovato la mia strada», dice un combattente di Ansar Dine.

Molto basata sul reclutamento dei ragazzini è la guerra tra fazioni rivali in Centrafrica, dove peraltro il reintegro nella società civile degli ex bambini soldato non ha funzionato.

Suor Elvira Tutolo, storica missionaria a Berberati e Bangui, ci racconta che tra i ribelli, con meraviglia e tristezza, ha riconosciuto un paio di ragazzi che erano stati accolti dalle suore nella missione di Berberati qualche anno prima e sottratti ai gruppi armati.

«Dalle foto ho riconosciuto Romualdo, che era un nostro ragazzo! Lo avevamo recuperato e invece è tornato a combattere – ci racconta suor Elvira al telefono da Bangui – Ma perchè accade questo? Perchè il programma Onu di disarmo e reintegrazione non ha funzionato.

Toglieva le armi ai giovani ma non offriva loro delle valide alternative lavorative; tanto che appena hanno potuto si sono rimessi a far la guerra».

Il terrorismo di matrice jihadista continua a mietere vittime in Africa orientale, non risparmiando neanche l’Uganda, protagonista dei recenti attacchi armati proprio nella capitale.

Anche qui, secondo fonti missionarie che abbiamo ascoltato a qualche giorno di distanza dall’attacco del 16 novembre scorso a Kampala, (tre persone sono state uccise e una trentina sono rimaste ferite), si tratta di «attentati che non hanno a che fare con la religione».

Quanto piuttosto con la gestione del potere politico e la destabilizzazione dell’area. Nonché alla facilità di assoldare giovani pronti a sparare.

In Uganda è impossibile «sopravvivere, avere un lavoro, guadagnare – spiega anche una nostra fonte missionaria in loco – pertanto io credo che sia sempre più frequente per questi gruppi che destabilizzano l’area, trovare manovalanza disposta ad uccidere».

Ancora una volta povertà, mancanza di istruzione e valide alternative occupazionali generano precarietà, insoddisfazione.

E il jihadismo affonda lì le sue radici. La guerra di religione qui non regge.

L’Uganda è un Paese a maggioranza cristiana (oltre l’80% della popolazione pratica la religione cristiana), l’Islam rappresenta meno del 14% della popolazione: «viviamo in un Paese libero dal punto di vista confessionale -spiega la fonte – dove non ci sono mai stati problemi di conflittualità con i musulmani».

E ancora: «L’Uganda è aperta a tutti, c’è una mutua fraternità: ognuno rispetta gli altri e c’è una completa libertà di professare la propria fede».

La violenza non sembra correlata dunque né ad una deliberata persecuzione nei confronti dei cristiani, né ad una presenza strutturata di gruppi islamisti con forte identità religiosa, quanto piuttosto ad un disegno più vasto che vede il terrorismo di matrice jihadista penetrare sempre di più in territorio orientale.

E reclutare manovalanza locale. La duplice esplosione a Kampala è avvenuta in luoghi chiave della vita politica e amministrativa del Paese: la prima deflagrazione accanto ad una stazione di polizia, l’altra vicino al palazzo del Parlamento.

La polizia lo ha descritto come «un attacco coordinato, da parte di gruppi ‘radicalizzati’».

Secondo il giornale on line The Conversation sarebbero due gli hotspot legati al terrorismo jihadista nell’Africa dell’Est: il primo è in Somalia, dove si «sperimenta una instabilità continua dal 1991» ad opera di Al-Shabab. I terroristi vengono reclutati tra le comunità marginalizzate del Kenya e anche tramite Uganda, Tanzania e Djibouti.

Il secondo hotspot è localizzato nell’Est della Repubblica democratica del Congo, ossia nel Nord Kivu.

Qui esiste una vera e propria “zona franca” di frontiera, controllata pochissimo se non per nulla dall’esercito governativo, e dove gruppi armati (almeno 114 milizie) infiltrati da Uganda e Ruanda si spartiscono il territorio.

Proprio in questa zona è avvenuto l’agguato all’ambasciatore italiano Luca Attanasio e la sua scorta. Con l’uccisione anche dell’autista Mustapha Milango e del carabiniere Vittorio Iacovacci.

L’Uganda in qualche modo si colloca in quest’area di frontiera ed è fortemente condizionata dal terrorismo:

«Le cause profonde degli attacchi terroristici– spiega il ricercatore Anneli Botha a The Conversation – hanno un’origine interna, diversa per ciascuno Stato. Non c’è un singolo profilo o una sola ragione. Si tratta di una combinazione di cause: politiche, sociali ed economiche».

Di certo, anche qui, ciò che accomuna il terrorismo è la facilità di reclutamento della manovalanza: «la gente si sente esclusa quando lo sviluppo in quella parte del Paese nella quale vivono è trascurato».

I boss dietro le gang hanno altre mire: territorio, ricchezze del sottosuolo, potere. Ma per loro trovare chi è disposto a mettere la faccia e la vita diventa un gioco facile.

Tornando ancora al Centrafrica, suor Elvira spiega che a manovrare i fili sono i leader che si contendono il potere.

Ma a fare il “lavoro sporco” sono delle giovani vittime. La coalizione di ribelli che «prima erano nemici tra di loro e adesso si sono alleati, è manovrata dall’ex presidente, sotto inchiesta per ribellione, ma ancora non è stato catturato.

Al suo posto vengono invece arrestati i pesci piccoli: ragazzi molto giovani assoldati dai gruppi armati ai quali è stato praticamente dato un lavoro e delle armi».