Verso la GMM 8/: Ecuador, don Saverio Turato e la missione del “calore”

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Don Saverio Turato, padovano, classe 1977, prete dal 2003, è stato missionario dal 2011 al 2021
in Ecuador, prima a Quito (fino al 2016) poi a Duran, città satellite di Guayaquil, il grande porto sul
Pacifico.

Di seguito l’intervista uscita sul numero di ottobre del NotiCum.

D. E allora don Saverio: stai ancora riposando?
Ehhh, direi di no, direi il contrario. Sono rientrato nel febbraio scorso e ad aprile ero già in
parrocchia. Non che l’avessi voluto, ma mi hanno chiesto -giustamente- di rendermi disponibile
per la sostituzione di parroci che si erano ammalati di covid. Sono venuto ad affiancare don
Vittorio che si era ammalato e dopo purtroppo è morto. E qui ad Azergrande, nella bassa
padovana, vicino alla laguna di Chioggia, sono rimasto. Tra qualche settimana avrò la nomina a
parroco.

D. Cosa hai sperimentato in questi mesi di rientro dall’Ecuador?

In questi mesi ho fatto una grande esperienza di ascolto, c’è stato indubbiamente un trauma per
questa comunità: la pandemia che ha colpito anche il parroco, da sempre punto di riferimento
anche per chi non frequentava, ha messo in ginocchio questa gente.

Dietro la mascherina vedevo occhi impauriti, pieni di disagio, di incertezza. E ho applicato quello che ho fatto per 10 anni in missione: l’ascolto di un grido, di una parola anche solo sussurrata ma che sempre fa emergere l’umanità che c’è in ciascuno di noi, senza la pretesa di dare soluzioni o di mettere in campo vari interventismi. Solo ascoltare, e accogliere, camminare a fianco.

D. Cosa ti ha insegnato l’esperienza in Ecuador, come uomo e prete?

Sento di aver portato a casa tanto affetto e tanto calore, in Ecuador celebrano tutto, tutte le
occasioni si prestano alla festa: compleanni, anniversari, onomastici, santi patroni vari… Questo
vuol dire riconoscersi, far sentire che sei parte dell’esistenza di qualcuno, di una comunità.

E questo calore che ho ricevuto indubbiamente ha fatto sciogliere certe mie rigidità. Questo si
trasmette anche nella fede. All’inizio mi domandavo: c’è bisogno di tutto questo devozionismo,
fatto di preghiera, immagini, processioni, novene… Ho capito con il tempo che è proprio questa
una caratteristica e che il calore umano, il calore relazionale fa bene alla fede: come amiamo il
prossimo, amiamo Dio.

D. che esperienza di chiesa ministeriale hai avuto in Ecuador?
Chi conosce la chiesa andina, sa che non c’è tanta corresponsabilità dei laici, che sentono ancora molto l’influsso dei preti e della gerarchia nelle scelte e nella conduzione pastorale di una
comunità. Tornando in Italia, pensavo che la chiesa avesse camminato un po’ di più in questo
senso. I laici anche qui, come in Ecuador, spesso sono lì ad attendere. Che cosa? Forse di necessità virtù, ovvero fino a che c’è il parroco lascio fare a lui, quando non ci sarà più o si celebra il funerale per tante comunità o si pensa davvero a ruoli diversi per i laici. Certo che fare il prete oggi in
Italia…