Padre Carlassare: “più fiducia in un nuovo sogno di Chiesa in Sud Sudan”

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«Quando ci sono situazioni di forte ingiustizia c’è sempre bisogno di qualcuno che se ne faccia carico affinchè le cose possano cambiare».

E’ quanto è accaduto nella diocesi di Rumbek, in Sud Sudan.

L’agguato al vescovo nominato Christian Carlassare, ad aprile scorso, e la sua ‘gambizzazione’ sono stati «un sacrificio necessario».

A sei mesi dall’accaduto è lo stesso padre Christian a parlarcene in una intervista rilasciata  nel corso di una sua visita alla Fondazione Missio a Roma.

«Io penso – dice padre Carlassare – che quanto è successo a Rumbek stia in realtà riconsolidando le relazioni tra le persone e anche la fiducia che la gente vuole riporre nella Chiesa. Una Chiesa che non li abbandona, che non porta rancore e che sa andare oltre».

Le ingiustizie di cui parla il comboniano sono frutto di una violenza tribale dilagante (strascico di una guerra civile durata 8 anni tra Salva Kiir e Riek Machar) che porta ad uccisioni di civili e contese per la terra e le risorse.

«Nello stesso giorno in cui io venivo ferito – ricorda – due donne incinte sono state uccise per motivi di vendetta e i loro bambini sono morti».

Padre Christian, a distanza di sei mesi cosa pensi sia accaduto veramente quel giorno a Rumbek? Chi volevano colpire, colpendo te?

«Io credo che non sia stato un attacco a me come persona, ma a questo sogno di Chiesa, a questo progetto di Chiesa. E soprattutto non un attacco di tutta la popolazione, ma di un piccolo gruppo.

Non sono i Dinka ad essersi schierati contro di me: io non penso affatto che sia una questione etnica di per sè. Ma ovviamente portare lì un vescovo che ha lavorato dal di fuori è stata una sfida: molta gente si chiedeva: “chi è? Cosa farà?” Ritengo però, e questa è la buona notizia, che quanto è accaduto stia in realtà riconsolidando le relazioni e anche la fiducia che la gente vuole riporre in questa Chiesa».

Da cosa è dipeso questo progresso, il salto in avanti nella vostra comunità?

La Chiesa può portare le ferite di un popolo ma lo fa con uno spirito nuovo: di perdono, e soprattutto di spinta al cambiamento. Da parte mia c’è stata la necessità di guardare avanti alla Chiesa che sogniamo e anche al desiderio di tanta gente innocente di vedere nella Chiesa una guida per superare le differenze. Non si può evangelizzare se non parliamo di pace e di perdono e se non lavoriamo per la pace attraverso l’istruzione, la cura dei malati e delle persone più povere. Evangelizzazione come umanizzazione, nel senso di superare tutto quello che ci disumanizza.

Il Sud Sudan è sempre in bilico però. L’accordo di pace interno tra  i Signori della guerra tiene?

«Io sento versioni molto preoccupanti: nel senso che c’è un accordo di pace che non sta assicurando al Paese una reale tranquillità e sicurezza nei diversi territori. L’accordo fatto è ancora un accordo tra i grandi, tra chi è ai vertici. È un accordo politico. Ma non è ancora arrivato nei territori dove la gente vive: ci sono molti sfollati e territori occupati da gruppi armati. E ci sono civili che possiedono armi. Queste problematiche sono più presenti laddove ci sono più risorse.

E’ stato avviato un disarmo della popolazione?

La presenza di armi è ovunque sul territorio. Non sono tanto le tribù quanto i clan, ossia confederazioni di tribù, realtà Nuer e Dinka, ad avere un numero molto elevato di armi e si proteggono (difendendo i propri capi di bestiame dalle razzie ndr.), ma accaparrano anche risorse facendo ricorso alle armi. Il disarmo non viene fatto con serietà perché ci vuole molto tempo per realizzarlo. Nella nostra diocesi abbiamo avuto esempi in alcune parrocchie: c’è stato un conflitto di un paio di giorni che ha fatto 70 morti e alla fine il governo si è ritirato. Questo è accaduto ad aprile scorso.

Perché tanta divisione in un Paese nato appena dieci anni fa?

Io credo che abbiano fatto il Sud Sudan ma non ancora i sud-sudanesi. Dall’indipendenza ad oggi invece di focalizzarsi sull’identità comune dei Sud-sudanesi, ci sono state delle dinamiche che hanno rafforzato l’appartenenza al proprio gruppo etnico. Penso che nella coscienza delle persone prima venga l’appartenenza al proprio gruppo etnico e poi quella al Paese.