Padre Gigi, l’insicurezza del Sahel e il dramma di chi resta

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«ll giorno dopo la notizia del rilascio di padre Gigi è tutto diverso e, non vedendolo di persona, l’assenza di cui ci si era fatta una ragione per non soffrire troppo, si trasforma in qualcosa di inedito e sconosciutoDopo la forzata assenza di due anni è come se ci fossimo abituati ad una sorta di vuoto che solo un incerto presentimento ha cercato di insinuare precario. Poi il giorno della notizia, attesa e temuta, arriva, come la fine di una guerra non ammessa».

A scriverlo è padre Mauro Armanino, confratello di Pierluigi Maccalli, il missionario della SMA (Società Missioni Africane), rapito in Niger e liberato in Mali dopo due anni.

Padre Mauro ci racconta come è stata vissuta in Africa la notizia del ritorno di padre Gigi, e di come la gente nel villaggio dove il missionario vive e opera, ha sempre saputo che sarebbe tornato a casa.

«Qui sono sicuri che tutta l’operazione non è altro che una manifestazione divina e che, in fondo, non c’era da preoccuparsi affatto. Bastava lasciar fare al loro Dio , i cui tempi coincidono raramente coi nostri. In fondo hanno ragione loro, fino a prova contraria.  Così sono i poveri della sua zona di Bomoanga, in questa savana con sempre meno alberi a fare da frontiera col nulla, ad avere ragione».

Dopo la liberazione del missionario quel che resta nel Sahel è la presenza dei terroristi, che sono ancora lì a presidiare e a portare instabilità: «Adesso ci sono in pianta stabile i ‘ banditi’, così sono chiamati i sedicenti jhadisti della zona. Impongono alla gente di non tagliare gli alberi per commerciare, tranne quei pochi soldi che serviranno per pagare le tasse scolastiche, le medicine e i mille imprevisti della povertà. 

E,  scrive ancora Armanino: «We are still alive, siamo ancora vivi, lui e noi, dopo tutto questo tempo, messo in parentesi oppure ancora più profondo dell’altro, quello normale».

La normalità in questa parte di Africa sotto assedio è un’utopia e per chi rimane la vita continua ad essere una continua scommessa e una lotta per la sopravvivenza.

Escrescenze di ogni tipo, composte da gruppi armati pericolosi e improvvisati, decisi a fare cassa, imperversano senza freno in tutta questa zona dove i confini sono labili. Altre inchieste dicono che i jihadisti sono originari del Mali. Ognuno azzarda le sue ipotesi, ma rimane il fatto che questa parte dell’Africa sub-sahariana, scossa da anni di interferenze francesi e di violenze settarie e tribali, è la culla di trafficanti e terroristi improvvisati che renodono un inferno la vita di chi ci è nato.