La guerra nel Tigrai e il rischio crisi umanitaria in Etiopia

Facebooktwitterlinkedinmail

La guerra civile in Etiopia è entrata in una fase cruciale il 26 novembre scorso, con l’attacco di Addis Abeba alla ‘capitale’ del Tigrai, Macallè.

Il premier etiope Abiy Ahmed ha ordinato all’esercito di entrare nella regione autonoma assediata da giorni, per lanciare quella che lui ha chiamato “la fase finale”, di un’operazione militare seguita all’escalation di violenza dei ribelli tigrini. Abiy ha anche assicurato di non voler in nessun modo toccare la popolazione civile del Tigrai, ma le notizie al momento sono scarse e frammentarie.

I nostri missionari vivono in gran parte parte ad Addis Abeba – comboniane e comboniani e anche salesiani – ma non solo: nella regione del Tigrai ci sono almeno tre comunità salesiane che sono sotto assedio come il resto della popolazione locale. Il loro confratello, don Angelo Regazzo, ce ne ha parlato con molta appresione. Inoltre, al confine con la Somalia, al nord est, nella diocesi di Robe, è presente un fidei donum di Padova, don Nicola de Guio, che è subentrato a don Peppe Ghirelli e che porta avanti la sua missione assieme a don Stefano Ferraretto e alla laica Elisabetta Corà.

Don Nicola ci ha spiegato che “all’inizio c’era molta speranza nei confronti di questo premier (premio Nobel per la pace nel 2019), ma ben presto sono arrivati i problemi”. La sua visione di unità e centralismo è forse troppo avanzata rispetto al settarismo e alle divisioni interne di un Paese federale che conta al suo interno ben 70 etnie diverse.

Abiy è un ex militare che aveva studiato Peace keeping all’università e preso parte come attivista alla lotta contro il dittatore rosso Menghistu al potere fino al 1991.

Con i suoi slogan rassicuranti ha lanciato una “Making Ethiopia Great Again” (MEGA) strategy. Una strategia della “grande Etiopia” che prevedeva anche una grandeur economica, grazie al progetto della Diga sul Nilo.  Ma questo ‘sogno’ si è schiantato ben presto contro il muro delle richieste dei gruppi etnici maggioritari, soprattutto oromo e tigrini.

L’etnicità è il criterio centrale su cui si basa il sistema federale etiopico. Secondo alcuni studiosi come il docente kenyano Peter Anyang’ Nyong’o, questa politica, portata avanti per anni e per fortuna poi “allentata” con l’entrata in scena di Abiy, ha però istituzionalizzato le discriminazioni. E anteposto i diritti collettivi a quelli individuali. Amnesty International ha denunciato la morte di cinquantaquattro persone di etnia Amhara barbaramente ammazzate nel villaggio di Gawa Qanqa ad inizio novembre del 2020 da esponenti dell’Oromo Liberation Army. 

Ma laddove non arriva il conflitto civile in Etiopia arrivano le locuste che distruggono i raccolti, e la pandemia da Covid-19 che comunque qui nel Corno d’Africa e nel Nord Africa ha fatto più vittime rispetto al resto del continente.

“Il virus da noi in Etiopia è arrivato a metà marzo – ha raccontato don Nicola – e le misure sono state quelle di chiusura, prevenzione e attenzione. Ma questo è un Paese che ha meno strumentazione sanitaria rispetto all’Europa, ovviamente, e non si fanno moltissimi tamponi. Siamo 107 milioni di persone e facciamo 7-8mila tamponi al giorno”.

Il pericolo della pandemia è stato messo da parte ora che un pericolo più grande – quello delle armi – incombe non solo sul Paese etiope ma su quelli confinanti: soprattutto Eritrea e Sudan. Il rischio è una crisi umanitaria in tutti il Corno d’Africa.