La guerra è sempre un fallimento, le ‘missioni’ militari lo dimostrano

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Si diceva una volta che la forza militare è necessaria non solo in chiave deterrente (il detto latino “si vis pacem para bellum”, se vuoi la pace prepara la guerra) ma anche come strumento per fare giustizia ove necessario.

Si diceva una volta che la storia è maestra di vita.

Una volta si dicevano tante stupidaggini e si continuano a dire, come dimostra l’attuale situazione delle missioni militari internazionali.

La vicenda afghana, con il ritiro inglorioso e pasticciato delle forze militari straniere guidate dagli Stati Uniti e con il contestuale via libera alle cruente violenze dei Talebani e dei gruppi jihadisti, non è l’unica a suggerire qualche riflessione.

C’è un ragionamento da fare sul merito di tali missioni, sull’uso degli interventi armati internazionali nelle situazioni di crisi o di conflitto, soprattutto quelli non sotto bandiera dell’Onu.

In estate, oltre al ritiro dall’Afghanistan c’è stato quello francese dal Mali dopo otto anni di dispiegamento dell’operazione Barkhane.

Il nome della ‘missione’ voleva prospettare il compito di contrastare l’insurrezione jihadista che colpisce, oltre al Mali, Niger, Ciad e Burkina Faso).

A volte i nomi perdono senso e c’è uno strano parallelismo tra Barkhane ed Enduring Freedom (libertà duratura) come 20 anni fa venne chiamato l’intervento statunitense in Afghanistan.

La “duna” francese smette di muoversi e il presidente Emmanuel Macron spiega la scelta come una ritorsione contro il governo maliano che avvia negoziati con i gruppi jihadisti.

La “libertà” statunitense smette di durare, dopo lunghi negoziati con i Talebani, e il presidente Joe Biden afferma che in Afghanistan si era andati a combattete il terrorismo e non a sostenere quel popolo in un cammino di progresso e, appunto, di libertà.

Un parallelismo consolidato anche da ragioni di politica interna, dato che tanto nell’opinione pubblica statunitense dopo 20 anni e oltre duemila morti, quanto in quella francese dopo otto e 55 morti, prevaleva ormai nettamente la contrarietà alle missioni militari all’estero.

Né si può trascurare la sostanziale ipocrisia, in questo caso anche e forse soprattutto europea, che sta accompagnando la vicenda dei profughi afghani.

Alle espressioni formali di solidarietà per quanti cercano con la fuga una speranza di vita che l’Occidente ha in qualche modo tradito, governi e le istituzioni europee non nascondono che le decine di migliaia di potenziali rifugiati afghani fanno paura.

Grecia, Polonia e Lituania alzano barricate alle frontiere con Turchia e Bielorussia in previsione dell’aumento dei flussi, mentre i ministri degli Interni dell’Ue trovano un’intesa sulla necessità di finanziare centri d’accoglienza, ma solo fuori dall’Ue, escludendo per il momento qualsiasi ipotesi di canali sicuri e reinsediamenti per chi fugge dai Talebani e dai terroristi.

Anche questo aspetto propone qualche considerazione sulle differenze – pratiche, ma soprattutto concettuali – tra questo tipo di interventi e quelli sotto bandiera dell’Onu.

Il dispiegamento dei Caschi Blu nelle situazioni di crisi si è andato via via modificando seguendo gli sviluppi del diritto internazionale.

Dal concetto un tempo assoluto di non ingerenza che consentiva all’Onu di intervenire solo dietro richiesta esplicita del governo del Paese teatro di una crisi, si è passati a quello di diritto all’ingerenza umanitaria (per inciso, proposto per la prima volta sulle pagine de L’Osservatore Romano) e poi a quello di dovere di proteggere.

Interventi come quelli in Afghanistan e in Mali, per non parlare dell’Iraq o dello Yemen e di altri luoghi quasi scomparsi dall’informazione internazionale, rispondono ad altre logiche, politiche ed economiche, non sempre palesi o apertamente dichiarate.

Vale anche per altre missioni nelle quali è impegnata anche l’Italia, che quest’anno sono state ulteriormente prorogate e maggiormente finanziate, nonostante l’uso almeno inquietante di tali finanziamenti.

Profonda e condivisibile preoccupazione in merito ha espresso l’Associazione delle organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale (Aoi) analizzando il decreto di proroga.

«La sensazione –secondo l’Aoi – è che il governo italiano, qualsiasi sia la sua composizione, vada avanti perseguendo le solite direttrici strategiche, in alcuni casi anche aumentando il suo impegno e in altri casi senza tenere sufficientemente conto degli impatti che tali strategie hanno prodotto».

Gli esempi più evidenti riguardano il settore del Mediterraneo cosiddetto allargato, dove le missioni navali Mare Sicuro e Irini, quella Takuba nel Sahel a guida francese – questa invece rimasta – quella bilaterale col Niger e soprattutto quella per la Libia, sembrano rispondere prioritariamente a obiettivi di contenimento dei flussi migratori.

Dalla firma dell’Accordo Italia – Libia del 2017, i governi di Roma (all’epoca era quello guidato da Gentiloni e i successivi, i due di Conte e quello attuale di Draghi non hanno cambiato minimamente strategia) hanno pagato perché la Libia impedisse le partenze di profughi e migranti.

Soprattutto con il finanziamento della cosiddetta “Guardia costiera libica”, il che favorisce e perpetua da cinque anni sistematici abusi e violazioni dei diritti umani.

Tale forza navale addestrata e finanziata dall’Italia, infatti, quando non affonda direttamente i barconi e non spara contro le poche residue navi impegnate a prestare loro soccorso, risbatte quegli infelici nei campi di concentramento.

Pochi, quasi nessuno tra i potenti, hanno imparato a pensare si vis pacem para pacem (se vuoi la pace prepara la pace).

I terroristi non si sconfiggono a cannonate.

Si combattono e si vincono inaridendo le acque nelle quali nuotano, povertà, discriminazione, fanatismo, odio per lo straniero e razzismo, persino uso distorto e pseudoreligioso di una qualunque appartenenza confessionale per cementare e indirizzare fragili identità.

Non c’è missionario, non c’è operatore umanitario (quelli veri) che non sottoscriverebbe simili affermazioni. Per non parlare di quanti come papa Francesco sanno bene e denunciano che le armi si producono per guadagnarci, più o meno alla luce del sole.

(Questo articolo fa parte di un dossier sul tema delle missioni militari, pubblicato sul numero di novembre di Popoli e Missione).