In fuga dalla Tunisia, inseguendo pane e lavoro

Sono 13mila i migranti tunisini sbarcati in Italia nel corso del 2020. E ancora fuggono.

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L’ultimo naufragio a largo della costa tunisina risale ad appena pochi giorni fa. Era il 9 marzo scorso quando un barcone è affondato con oltre 200 persone a bordo, 39 delle quali sono decedute: erano tutte dirette a Lampedusa. La guardia costiera tunisina ne ha salvate 165.

In totale sono 13mila i migranti tunisini sbarcati in Italia nel 2020, come riferiscono fonti della cooperazione alla Reuters. Perchè ancora così tanti?

Dalla Tunisia si fugge ancora, se non più per mancanza di libertà, certamente per scarsità di pane e lavoro. La crisi economica morde.

Ritratto di Mohamed Bouazizi, Sidi Bouzid. Crediti: de bonis.

Eppure si è appena celebrato il decennale della Rivoluzione a Tunisi. Nel dicembre del 2010 e gennaio del 2011 dall’entroterra povero e rurale di Kasserine e Sidi Bouzid (zone neglette e marginalizzate) si levò un’onda rivoluzionaria fiera e disperata che in poco tempo si espanse rovesciando un regime e cambiando una parte di mondo.

Rivoluzione tradita

La piazza riuscì allora a deporre il dittatore Ben Ali: il popolo chiedeva pane e libertà, ottenne democrazia. Diede inoltre la stura al risveglio del mondo arabo stanco di despoti; fu capofila di una ribellione che accese tutto il Nord Africa.

Si guadagnò (a prezzo di centinaia di vite umane) la fine della dittatura repressiva. L’hanno chiamata l’”eccezione tunisina” perché è stata in realtà l’unica rivoluzione davvero compiuta tra quelle delle Primavere arabe.

Ma la società civile tunisina non ha mai smesso di vigilare e di protestare da dieci anni a questa parte: ora che ha il diritto di parola, parla. Per contestare una classe politica che nonostante tutto non ha ancora dato concretezza al sogno di rinascita di un Paese. La regione di Kasserine in particolare, ciclicamente scende in piazza.

L’economia resta il vero tallone di Achille di un Paese libero e riformato, eppure povero. Il deficit ha raggiunto il 12% del Pil e il debito supera il 90%.

«Le premesse della rivoluzione sono disattese dal punto di vista economico – spiega la ricercatrice Clara Capelli, economista dell’Ispi – Dopo Ben Ali è stata smentita la narrazione di un Paese caratterizzato da dati macroeconomici stabili».

Le carenze tunisine sono strutturali: non c’è redistribuzione del reddito, né delle risorse tra centro e periferia (nonostante il bacino minerario di Gafsa); non si produce abbastanza e l’innovazione è scarsissima.

Neoliberismo canaglia

«Il sistema capitalista considera produttività ed innovazione come elementi chiave», dice Capelli. Ma in Tunisia l’anelito al capitalismo si scontra con una fragilità di sistema che avrebbe bisogno piuttosto di un solido Stato sociale.

Eppure «c’è una resistenza del modello economico neoliberale al cambio di paradigma», afferma Capelli.

Il neoliberismo qui ha fatto diversi danni: la Carta costituzionale del 2014 è una delle migliori possibili, elaborata da tutte le forze in campo (laiche ed islamiste), ma la Tunisia è ancora profondamente diseguale e frammentata; la disoccupazione galoppa e non dà prospettive ai giovani.

«La crisi è fortissima – spiega a Popoli e Missione Renata Pepicelli, docente di Islamistica e Storia dei Paesi islamici all’Università di Pisa – ed è legata alla disoccupazione giovanile. Sono giovani con diplomi, istruiti, che hanno investito nella formazione scolastica ed universitaria e adesso non trovano lavoro». Molti di loro partono e prendono il largo.

«Nessun governo – aggiunge – è riuscito a fare una proposta economica alternativa a quella liberista entro la quale la Tunisia è calata».

Al malcontento diffuso il governo di Hichem Mechichi non è riuscito a dare risposte «se non la repressione, e questo ha reso più forte la protesta».

Sbeitla (la splendida Sufetula dell’imperatore Diocleziano), nell’entroterra centro settentrionale, è un’icona della diseguaglianza. E mentre scriviamo insorge. I giovani si sono ribellati a gennaio scorso, manifestando in piazza.

Ma le forze dell’ordine li hanno repressi. Haykel Rachdi, 26 anni, è stato ucciso dai proiettili della polizia e oltre mille persone sono state arrestate in tutta la regione.

Siti archeologici e proteste

Il governatorato di Kasserine è uno dei più miseri: non c’è lavoro né futuro. Eppure qui sorge un celebre sito archeologico romano in attesa di turisti che non arrivano mai. Sbeitla abbaglia con i suoi mosaici incredibilmente conservati, le sue terme, i templi, le chiese, le fonti battesimali in pietra calcarea rossa. I turisti però, scarsi già prima della pandemia, oggi sono inesistenti. La città che con l’imperatore romano Settimio Severo nel III secolo raggiunse il massimo splendore, è la sentinella dell’abbandono della ‘Tunisia profonda’.

Siamo stati a Sbeitla nell’estate del 2019 e allora ci era parsa bella e desolata. Oggi è bella ed arrabbiata, come raccontano le cronache locali.

«Vogliamo lavorare!», gridano i giovani. La vita qui attorno è in perenne attesa: di finanziamenti statali, di turisti che non arrivano, di una modernità che si allontana sempre di più. I giovani si trascinano da un bar all’altro. Attendono.

Ma nel mese di gennaio di quest’anno è tornato a battere il mai sopito cuore rivoluzionario. Anche perché per loro mangiare e condurre una vita dignitosa è diventato sempre più difficile.

«Il diritto alla salute, all’acqua e al lavoro sono garantiti in Costituzione ma non nella realtà – ci spiega ancora Renata Pepicelli – Ci ritroviamo quindi in una situazione di scollamento dalla realtà: non possiamo non vedere le traiettorie mancate del post-rivoluzione e i problemi oggi all’ordine del giorno».

 Cancellare il debito

Se la Tunisia arranca, dall’altra parte l’Europa latita. «Da una parte l’Unione Europea cerca la stabilità della Tunisia e vuole che collabori per il controllo delle frontiere ma poi non la sostiene abbastanza – dice Pepicelli – Il Paese che avrebbe dovuto essere accompagnato dopo la Rivoluzione, ha dovuto vedersela da solo con le sue fragilità».

Tunisi continua ad indebitarsi con il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale: «in cambio – argomenta Renata Pepicelli – i funzionari del Fmi chiedono tagli alla spesa pubblica che si ripercuotono profondamente sulla vita quotidiana delle persone. Il debito estero tunisino andrebbe cancellato, sostengono economisti ed attivisti. E invece lievita.

Il grandissimo impoverimento delle classi medie e medio basse è la cartina di tornasole. E così si torna a scioperare, si torna a protestare e le piazze si accendono nuovamente: «lo spiraglio, la via d’uscita da questa impasse li vedo proprio nella volontà di tornare in piazza.

Il fatto che la cittadinanza non si arrenda, che torni a manifestare e che tutti siano disposti a rischiare in prima persona, mettendo a repentaglio i loro corpi, in nome di un cambiamento e di un maggior benessere, è il segno che la Rivoluzione ha funzionato», spiega Pepicelli.

La ritrovata libertà è la forza in mano al popolo. Che continua ad usarla come può e con sempre maggior slancio. Ciò che manca è una comunità internazionale pronta a sostenere le proteste e ad accogliere chi fugge. La chiusura delle frontiere è uno schiaffo in faccia al coraggioso popolo tunisino.

(Tutte le foto sono di Ilaria De Bonis)