Il popolo delle discariche, dal Ghana al Perù

Migliaia di persone vivono ai margini, cercando tra gli scarti. I missionari sono accanto a loro per combattere la povertà.

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Cambiano colore con le prime luci dell’alba i fumi che la grande discarica di rifiuti elettronici di Agbogloshie, alla periferia di Accra (in Ghana) continua ad emettere ininterrottamente.

L’aria è irrespirabile. Vapori tossici si levano qua e là tra le collinette di pezzi di computer, cellulari, frigoriferi, televisori ed ogni altro tipo di e waste, mentre migliaia di cercatori sono già al lavoro tra i rottami per recuperare pezzi da rivendere.

Sono soprattutto donne e bambini che a piedi e mani nude, che vivono di quello che riescono a recuperare dal coacervo maleodorante della grande discarica a cielo aperto dove finiscono gli scarti tecnologici.

Malgrado lo spettacolo desolante, la discarica, le tante discariche sparse sulla Terra, sono luoghi brulicanti di vita e di umanità, emblematici paradossi economici dove il rifiuto è ancora capace di essere volano di scambi, riciclo e guadagni.

La discarica dà da vivere, la spazzatura intossica, uccide. Il popolo della discarica è giovane, raramente si arriva a 40 anni facendo questa vita.

L’epidemia di Covid trova terreno fertile in queste realtà sprovviste di qualunque norma igienica, e le montagne di rifiuti lievitano con tonnellate di nuovi rifiuti sanitari – mascherine, guanti di plastica e materie sintetiche – difficilmente smaltibili.

Tra i ragazzi di strada a Korogocho

Padre Maurizio Binaghi è in Kenya dal 2014, nella discarica di Dandora, presso Nairobi, la più grande del Kenya. In quest’area ci sono molti slum –circa 200 – come Canaan e Shashamane, ma il più famoso è Korogocho, dove i comboniani vivono presso la parrocchia di Kariobangi.

Per effetto della pandemia, Dandora è più affollata di prima come spiega padre Maurizio da Korogocho «perché già da marzo 2020 tutte le scuole sono state chiuse e un sacco di ragazzini per sopravvivere sono andati sulla discarica a cercare cibo.

Donne, famiglie rimaste senza lavoro sopravvivono sulla discarica. Questo ha portato all’aumento della violenza perché certe zone sono controllate da bande criminali che chiedono una tangente per accedervi. Gli scontri tra bande sono all’ordine del giorno». Si lotta per accaparrarsi i rifiuti “migliori”.

La discarica purtroppo è abbrutimento e in questo contesto è facile che la gente perda di umanità «perché si è sporchi, ci si abitua a sopravvivere con tutto.

A Korogocho c’è un enorme mercato degli oggetti più disparati: piatti, coltelli, corde, spazzolini per il bagno, tutto recuperato dal mucchio, rimesso in vendita per pochi soldi». Si vendono addirittura i sacchi della mondezza usati e lavati nell’acqua nera del Nairobi River che costeggia Korogocho.

Padre Maurizio, impegnato nel programma per ragazzi di strada Napenda Kuishi (Io voglio vivere, ndr) racconta che «le donne con le gambe dentro l’acqua inquinata dalle scorie chimiche delle industrie della capitale, lavano per ore sacchi di plastica che poi vengono venduti.

Ce ne sono molte che si guadagnavano da vivere andando a lavare la biancheria sporca nelle case dei ricchi e adesso sono senza lavoro perché chi può cerca di evitare il contagio. A causa della pandemia molte altre persone si sono aggiunte ai circa quattromila abitanti della discarica».

Per fortuna la diffusione del Covid sembra ancora al di sotto di quello che si temeva all’inizio della pandemia. Fino ad ora, spiega il missionario comboniano «i numeri ufficiali del contagio sono piuttosto bassi.

Il fatto è che non si capisce bene chi abbia o non abbia il virus, mancano i test, ma il basso livello di diffusione si spiega col fatto che qui la popolazione è molto più giovane rispetto ad altri Paesi occidentali.

Io sono con i ragazzi di strada tutti i giorni e vedo che i sintomi si sentono molto meno o forse si confondono con altre malattie come malaria e tbc.

E comunque alcuni ragazzi di Dandora dicono “meglio rischiare il Coronavirus che morire di fame”. I poveri non possono permettersi di stare in casa, la gente si muove, la baraccopoli è sovraffollata. Portano le mascherine, però abbassate sul mento, non c’è cultura della prevenzione».

Anche grazie al lungo lockdown, nei quartieri poveri di Narobi, più che l’emergenza sanitaria si sente quella economica, mentre «con la mancanza di lavoro, la violenza è aumentata, e i poveri sono ancora più poveri.

Malgrado il coprifuoco serale, nella baraccopoli la vita non si è fermata. Noi non abbiamo mai chiuso le nostre attività per i ragazzi di strada, siamo considerati servizio essenziale, il numero dei ragazzi che non vanno a scuola e hanno fame è triplicato, erano 50, ora sono 300.

Abbiamo preso le precauzioni sanitarie adeguate: mascherine, disinfettanti, raccomandazioni per il distanziamento sociale, igiene.

Anche se questo finora ha funzionato, è molto probabile che qualcuno dei ragazzi abbia avuto il virus ma sia asintomatico».

In Perù i salesiani di Piura

In questi contesti di degrado e povertà, ad ogni latitudine, il rischio Covid è altissimo, come raccontano don Angel Carbajal e don Pedro Da Silva, due salesiani a Piura, città costiera del Perù, uno dei Paesi al mondo che più è stato segnato dalla pandemia in termini di vite umane.

Di fronte alle difficoltà di tante famiglie in condizioni precarie, i missionari – riferisce l’agenzia salesiana Ans – hanno scelto di «fare come avrebbe fatto Don Bosco».

Così il sostegno dei salesiani si allargato dai frequentatori degli oratori per aiutare le famiglie rimaste senza lavoro o con familiari contagiati dal virus.

Poi, di casa in casa, il cerchio si è allargato fino ad arrivare dove nessuno vuole andare: nella discarica di Castiglia, dove si vive in baracche di lamiere e cartone e si recuperano di oggetti e plastica, minerali come il rame e altre materie prime. I missionari vestiti con tute protettive, mascherine e visiere, portano cibo e assistenza alla gente che vede in loro una speranza in mezzo al disinteresse generale. Le persone li aspettano, dicono: «Padre mio, la gente muore: manca l’ossigeno, manca il cibo».

La missione nella discarica di Catiglia è di casa.

Asia: la Smokey Mountain che non c’è più

La chiamavano Smokey Mountain perché non smetteva mai di emettere fumo nero, giorno e notte, intossicando l’aria.

Alta 50 metri, era fatta di due milioni di tonnellate di rifiuti. Ci si arrivava da Tondo, una delle periferie più disperate di Manila con 70mila persone per chilometro quadrato.

Oggi questa orrida montagna non c’è più come racconta padre Carlo Bittanti, da due anni rientrato in Italia per ricoprire l’incarico di Superiore generale dei Canossiani: «Sono stato missionario per 32 anni, nelle Filippine e seguivo le parrocchie della zona, andavo spesso nelle famiglie della gente della Smokey Mountain.

Già negli anni Novanta l’ex presidente Ramos ha chiuso la discarica e spostato le oltre 20mila persone che ci vivevano in grandi capannoni, temporary houses, lungo una strada accanto al porto dove la gente continuava a vivere di spazzatura (bottiglie di plastica, copertoni, riciclaggio di materie prime).

Ben presto anche qui ha cominciato a crescere la montagna dei rifiuti, proprio accanto alla parrocchia di San Pablo Apostol».

A Tondo la discarica è rinata dalle sue “ceneri” e ben presto si è formato un nuovo agglomerato di oltre 90mila squatters, chiamato Happyland, da (hapilan che significa spazzatura puzzolente, ndr).

Da giugno dello scorso anno il governo sta creando zone abitative fuori Manila, spiega padre Bittani-, «dove ricollocare le famiglie in piccole strutture base.

In queste aree mancano però collegamenti con scuole e luoghi di lavoro e  tanti rivendono queste casette. Il problema non è dare una casa 40 chilometri più in là ma dare lavoro».