Cattolici in Kirghizistan, il Cielo (e il mondo) in una stanza

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La chiesa di San Michele Arcangelo nacque semiclandestina, ai tempi dell’Unione Sovietica, costruita dai superstiti delle purghe staliniane. Oggi è una tranquilla, piccola oasi di cristianità in un Paese definito “un’isola di democrazia” nell’Asia Centrale.

Arrivarci non è stato semplice. Anche se quasi tutti i tassisti kirghisi della capitale Bishkek usano lo smartphone con Google map, per trovare il numero 197 di Vasil’yeva, una strada sterrata nella periferia Nord, quasi campagna, ci si è dovuti arrangiare con le classiche informazioni chieste al volo ai pochi passanti incrociati in questa zona, in una placida e soleggiata domenica mattina.

Capisci di essere arrivato quando finalmente vedi una croce sulla facciata di una chiesa seminascosta dal muro di cinta di quello che sembra l’ingresso di una casa qualsiasi.

In effetti, San Michele Arcangelo, in pratica l’unica vera chiesa cattolica del Kirghizistan, era nata come anonima casa ad un piano per non farsi notare troppo dalle spie del KGB.

Era il 1969, e i fondatori, un gruppo di cattolici di origine tedesca, avevano già conosciuto le prigioni sovietiche: erano i successori dei deportati da Stalin, che sparpagliava le etnie “dissidenti” ( quaggiù tedeschi, appunto, e polacchi, ucraini, lituani) nelle varie repubbliche dell’Urss.

Padre Anthony Corcoran, gesuita texano, conosce bene le radici dei cattolici sopravvissuti a tutto, perché il suo primo incarico, appena ordinato sacerdote, fu in Siberia, luogo che evoca i peggiori fantasmi di persecuzione.

«Era commovente – ricorda il sacerdote – constatare l’attaccamento alla fede cattolica e la devozione di persone, donne in particolare, che, oltre alla persecuzione, avevano vissuto per decenni senza vedere un prete, senza sentire una messa, partecipare ai sacramenti».

Vecchie babushke, nonnette indomite avevano trasmesso la fede a figli e nipoti, che conservavano un catechismo risotto all’osso: credevano in Gesù, figlio di Dio, nato povero da Maria (il rosario era l’oggetto di culto più diffuso), morto e risorto per amore degli uomini.

La Siberia, dove il sacerdote americano arriva nel 1997, è in uno stato di povertà estrema, dopo il crollo del sistema comunista. Per il Kirghizistan le cose non vanno meglio, la crisi economica induce molti abitanti di origine europea (a partire dai russi, che comunque sono ancora il 6% della popolazione) ad andarsene, depauperando la già piccola comunità cattolica.

Eppure, padre Anthony si trova subito bene nel Paese che già aveva ammirato nelle varie visite effettuate dalla Siberia: circondato da montagne innevate, che fanno da barriera naturale con la Cina ad Est, ricco di acque e di pascoli, scarsamente popolato (solo sei milioni di persone su un territorio che è due terzi dell’Italia), il Kirghizistan è abitato da gente fiera e gentile, un popolo di allevatori nomadi che, fra yurte e cavalli, ricorda molto i mongoli, con cui i kirghisi (in larga maggioranza musulmani, tanto quanto i mongoli sono perlopiù buddisti) condividono anche lo spirito democratico, la voglia di libertà e indipendenza.

«Se si pensa all’Asia centrale, ai regimi autoritari degli Stati confinanti, questo Paese assomiglia ad un autentico miracolo».

Impossibile non condividere il giudizio di padre Corcoran: a partire dall’accesso facile, senza visto (anche per favorire il turismo, risorsa importantissima per un Paese povero), dalla facilità di movimento, dalla rilassatezza e gentilezza dei modi della gente, si capisce subito che il Kirghizistan è un Paese molto aperto e tollerante, lontano anni luce dai fanatismi che funestano i vicini Pakistan e Afghanistan, per esempio.

Il governo, assolutamente laico, tiene d’occhio l’attivismo delle moschee, ma solo per controllare le influenze esterne (da Arabia Saudita e Turchia), perché qui non c’è traccia di fondamentalismo. «Noi cooperiamo in armonia con le altre religioni, che siano l’islam o la Chiesa ortodossa».

I veri problemi si riscontrano nel sociale: la povertà, per quanto la maggioranza viva in maniera dignitosa, favorisce l’alcolismo, la disgregazione familiare, la violenza domestica. L’impegno costante, gratuito, rivolto a tutti, senza distinzione religiosa, della Chiesa cattolica, fa sì che l’attrazione, come da altre parti (in Mongolia, per esempio), sia forte.

La testimonianza sincera porta ad avvicinarsi alla fede: in pratica dove c’è un piccolo nucleo di fedeli, si formano in poco tempo delle comunità che diventano parrocchie. Sono piccoli germogli che crescono seguendo la fantasia dello Spirito.

Il Vangelo ritorna dove era già stato: da queste parti arrivarono i Francescani, ben prima di Marco Polo. E prima ancora, i cristiani nestoriani, che, per quanto considerati eretici (una parte poi rientrò nella Chiesa di Roma), portarono il Vangelo in lungo e in largo in Asia, partendo dalla Persia, ben prima della penetrazione islamica (V-VI secolo dopo Cristo).

L’Asia fu in qualche modo cristiana, ma se ne sono perse le tracce, tanto da sconfinare in una delle più strane e affascinanti leggende medievali, quella dell’impero di prete Gianni.

Alla messa domenicale di San Michele Arcangelo, comunque, è rappresentato praticamente tutto il mondo: ai (pochi) fedeli kirghisi si aggiungono signore indiane e filippine, alcune famiglie africane, qualche europeo, tutti a sentire la splendida omelia in inglese di un sacerdote americano.

Dopo la messa, si va a condividere tè, caffè, cocomero e dolcetti nella piccola canonica: il mondo in una stanza. Sì, la Chiesa sperduta nel cuore dell’Asia è “una e cattolica”, cioè “universale”.